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Piccola Posta
Trump & Vance vs. Zelensky: il potere svelato della vendetta
Il presidente ucraino teneva ad associare la firma dell'estorsione delle risorse minerarie a due riconoscimenti. La sua insistenza su queste condizioni ha fatto saltare il banco: all'irrisione semibonaria si è sostituita la brutale umiliazione
Il 21 aprile 2019 Volodymyr Zelensky è eletto presidente, al ballottaggio contro Poroshenko, col 73 per cento dei voti. La mattina del 25 luglio riceve una telefonata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che si era già congratulato con lui il 22 aprile. “Congratulazioni per la grande vittoria. Tutti noi abbiamo guardato dagli Stati Uniti e tu hai fatto un lavoro formidabile. Il modo in cui sei sbucato fuori, uno cui non si sarebbero concesse molte possibilità, che finisce vincendo alla grande. Una fantastica impresa. Congratulazioni”. Zelensky se ne compiace, ringrazia per il sostegno degli Usa. Trump vanta la superiorità del suo appoggio sulle chiacchiere degli alleati europei, la Merkel, che parla e non conclude niente. Zelensky ne conviene, ringrazia specialmente per l’aiuto nel campo della difesa. “Siamo pronti a continuare nella cooperazione… e ad acquistare più Javelin per la nostra difesa”. La conversazione si protrae per 30 minuti (la trascrizione della Casa Bianca, desecretata, si trova in rete), e si conclude con reciproci auguri di incontrarsi al più presto. “In qualunque momento tu voglia venire alla Casa Bianca – dice Trump – chiama senza problemi. Dacci una data e noi provvediamo. Non vedo l’ora di vederti”. Zelensky ricambia, “e anch’io ti vorrei invitare in Ucraina, Kyiv è una gran bella città. Sarebbe un’idea magnifica. Possiamo prendere il mio aereo e venire in Ucraina o il tuo, che probabilmente è molto migliore”. Zelensky ci sarebbe andato vestito bene, peccato.
Nel mezzo di questo meraviglioso cinguettio, Trump fa scivolare, quasi per caso, una raccomandazione: “Vorrei che ci facessi un favore, perché il nostro paese ha incontrato molte difficoltà e l’Ucraina ne sa parecchio. Vorrei che scoprissi cosa è successo con tutta questa situazione con l’Ucraina…”. Si tratta delle interferenze russe nella campagna presidenziale del 2016 e, più urgentemente, del rivale di Trump alle prossime presidenziali, tra appena un anno, Joe Biden. “Si parla molto del figlio di Biden, che Biden ha bloccato l’azione penale e molte persone vogliono scoprirlo, quindi qualsiasi cosa tu possa fare con il procuratore generale sarebbe grandiosa. Biden andava vantandosi in giro di aver bloccato l’azione penale, dunque se puoi indagare… Lo trovo orribile”. Zelensky assicura: “Fra noi non hai che amici… Quale presidente dell’Ucraina garantisco che tutte le indagini verranno svolte apertamente e lealmente”. Quanto a Biden Jr., “noi abbiamo guadagnato la maggioranza assoluta nel nostro Parlamento, e il prossimo procuratore generale sarà al 100 per cento una persona mia, il mio candidato, e entrerà in servizio a settembre”. Nell’attesa di vedere esaudito il proprio desiderio, Trump sospende gli aiuti all’Ucraina, mentre Zelensky si guarda dall’esaudirlo – del resto dichiarerà sempre di non aver subìto alcun ricatto. Così, a settembre, avverrà che, rese pubbliche le pressioni compresa la telefonata, Donald Trump subirà il primo impeachment, dal quale il Senato lo assolverà nel febbraio 2020.
Questo era un precedente, non certo il minore, dell’incontro favoloso allo Studio Ovale. Che si è procurato, fuori dalla cerchia dei trumpiani del tutto e dei, d’un tratto numerosi, trumpiani quasi quasi, due giudizi: di esser stato un agguato, e un’aggressione di stampo mafioso. Alla premeditazione dell’agguato credo solo in parte: che cioè fosse stato pensato soltanto come una soluzione di riserva. Lo mostra l’intero andamento. Trump vuole incassare la controfirma dell’estorsione sulle risorse minerali, e concede a Zelensky una indulgente sbrigativa riammissione a corte. Zelensky tiene a due cose essenziali, oltre che a usare la tribuna mondiale per ripetere quello che il suo paese sta subendo – esibendo le fotografie delle torture ai prigionieri, ricordando la sorte delle migliaia di bambini rapiti. Tiene ad associare la firma dell’estorsione a due riconoscimenti, che l’Ucraina (e l’Europa) non saranno estromesse dal negoziato di cui si parla, e che il cessate il fuoco non avvenga senza qualche garanzia di sicurezza per l’Ucraina. Nell’intenzione degli ospiti, quella di Zelensky è una Canossa, sia pure sultanescamente paziente, perfino verso l’accattona uniforme d’ordinanza. Ma l’insistenza di Zelensky su condizioni ovvie quanto indelicate per i grossi ospiti fa saltare il banco, e innesta l’intervento del piano di riserva. Che alla irrisione semibonaria sostituisce l’umiliazione brutale, attraverso il picchiatore Vance, cui Trump si unisce, ora non più frenato ma fuori dai gangheri. Zelensky adesso è insieme disperato ed eroico, e così lo vedrà il mondo, e la sua gente, eroicamente disperata. Non di un agguato si è trattato, ma di uno svelamento. Rotti gli argini, gli energumeni possono scatenare il loro repertorio: la visita in Pennsylvania durante la campagna elettorale, la debolezza ucraina di carte, di uomini e di armamenti, i visitatori portati in giro di propaganda per l’Ucraina bombardata, l’anima guerrafondaia, la vicinanza a Biden.
Dopo, è sembrato per un momento sbalorditivo il paragone così diffuso, e nelle sedi più autorevoli e prudenti, con la mafia. Era inesorabile. Quel raduno di uomini (maschi) d’onore attorno all’interlocutore cerimoniale destinato a scomparire riproduceva strettamente, mi hanno fatto notare, la scena dell’incontro fra don Vito e Sollozzo. Anche qui la parola “rispetto”, benché meno trivialmente che nel duo Vance e Trump. E almeno, quando il figlio fesso si intromette, don Vito lo gela: “Io ho una debolezza sentimentale con i figli miei e li ho un po’ viziati: parlano invece di stare a sentire”. Vance invece gli dà il la, e lo incita perfino con una spintarella. Quanto a Sollozzo, esce dall’incontro cortesemente, perché la mafia è la miglior erede della romanità imperiale e delle corti rinascimentali quanto a maneggio del potere e simulazione e dissimulazione. Ma anche in quelle sedi classiche, Tacito e Machiavelli, veniva un momento in cui il potere tirannico era così ridotto ai soli odio e paura da abbandonare simulazione e dissimulazione e agire “alla scoperta” (Guicciardini, appena citato da Michele Ciliberto): questo ha visto il mondo nei dieci minuti finali della Casa Bianca. Alla scoperta: il potere non più velato, ma svelato. E il suo cuore segreto reso pubblico e ostentato: la vendetta.
All’indomani, Zelensky ha ripetuto di essere disposto a uscire di scena se l’Ucraina entrasse nella Nato. Ecco un passo falso. Trovi un’altra condizione per offrire una sua uscita di scena, che l’Ucraina sia accolta nella Nato è un’ipocrisia retorica. Musk – geloso come dev’essere di essere stato tenuto fuori da quei dieci minuti, il romanista sfidante del Colosseo – ha ritwittato l’auspicio di uscire dalla Nato e dalle Nazioni Unite. Immaginate come debbano sentirsi quegli stati, a cominciare dai limitrofi dello zar, da quelli davvero entrati arditamente nella Nato, a chiedersi che cosa è, che cosa sarà da un momento all’altro, il famoso articolo 5 del trattato. La supposta assicurazione sulla vita.
Del resto, c’erano dettagli, dallo Studio Ovale, che già facevano tremare le vene ai baltici, come il momento di Trump che si è detto “committed, impegnato” alla Polonia, ma ha esitato sui “paesi baltici” – e si immaginava che cosa se ne fosse detto nella telefonata con Putin, i paesi baltici hanno le minoranze russe. Oppure lo scambio: “Giornalista: Signor presidente, sarebbe disposto a visitare l’Ucraina, la Libia o Odessa…? Trump: Non voglio parlare di Odessa, non parliamo di Odessa, voglio parlare di fare un accordo, di ottenere la pace, dovremmo parlare di Odessa, ma molte città sono state distrutte, molte città che non sono riconoscibili, non c’è un edificio in piedi e molte…”. Riascoltatelo come se foste di Odessa.