Ansa

piccola posta

Zhenya e Svetlana, artiste coraggiose condannate dal tribunale di Putin

Adriano Sofri

Le due donne avevano realizzato nel 2020 uno spettacolo la cui interpretazione era stata brutalmente piegata per l’opposizione alla guerra delle autrici. “La cosa che temo di più è di avere paura”

Lunedì 8 luglio, a Mosca, un tribunale addetto al disbrigo degli affari correnti condannava Evgenia (Zhenya) Berkovich, 39 anni, e Svetlana Petrychuk, 44, a 6 anni di galera per apologia del terrorismo. In galera erano preventivamente detenute da 14 mesi. Le due donne avevano realizzato nel 2020 uno spettacolo, “Finist Yasnyi Sokol” (Finist, il falco coraggioso). Vi si mettevano in scena, sulla base di testimonianze reali, le storie di cittadine russe che si innamoravano di militanti dell’Isis e li raggiungevano o tentavano di raggiungerli in Siria, e i processi che affrontavano al ritorno in patria. Lungi dal sollevare sospetti di compiacenza col terrorismo, lo spettacolo, che alludeva anche a un frustrato e deviato desiderio d’amore delle donne russe, aveva ricevuto la “Maschera d’oro”, il più prestigioso premio della critica, e il patrocinio del ministero della Cultura, ed era stato replicato in circostanze ufficiali, per esempio in alcuni penitenziari. A piegare così brutalmente l’interpretazione era stata l’opposizione alla guerra delle autrici. Nel febbraio del 2022 Zhenya manifestò per strada, a Mosca, contro l’invasione dell’Ucraina, e fu incarcerata per 11 giorni. Finché, il 5 maggio del 2023, fu arrestata, insieme a Svetlana, dopo che un sedicente Movimento di liberazione nazionale della Russia, di estrema destra, l’ebbe denunciata per apologia del terrorismo. Con l’addebito aggravato di “femminismo radicale”.

Zhenya Berkovich è nata a Leningrado, oggi San Pietroburgo. Scrittrice, poetessa, femminista, donna di teatro. In una famiglia ebrea, un bisnonno giustiziato nel 1938 per “cospirazione”, i suoi nonni e i suoi genitori erano stati illustri dissidenti nell’Unione Sovietica. Sua nonna, Nina Katerli, strenua combattente per i diritti umani, è morta a 90 anni il 20 novembre 2023, quando Zhenya era in carcere. Famosa per l’attività teatrale, Zhenya aveva attirato l’attenzione con le poesie contro l’abuso retorico della gloria dei veterani nella Grande Guerra nell’aggressione all’Ucraina, e la denuncia della distruzione mirata del Teatro di Mariupol. Berkovich, per giunta, aveva adottato due ragazze, e si era prodigata nell’assistenza agli orfanotrofi, spingendosi, il delitto più oltraggioso, a promuovere l’adozione di minori ucraini con il proposito di riportarli un giorno nel loro paese.
Prolungata di due mesi in due mesi, la prigionia preventiva delle due donne è arrivata fino al processo di lunedì. Il raccapricciante testo dell’atto di accusa è pubblicato, in italiano, sul sito di Vita. Con il commento, in aula, di Berkovich: “Mi è incomprensibile il rapporto tra me e questo insieme di parole”.

Il curriculum teatrale di Berkovich anticipa e spiega la sua persecuzione giudiziaria. In una delle sue prime prove aveva adattato l’“Allodola” di Jean Anouilh, incentrata sul processo a Giovanna d’Arco. Una successiva regia, nel 2012, sul celebre processo al giovane Joseph Brodsky che, interrogato sul perché non svolgesse un lavoro utile alla collettività, rispondeva che il suo lavoro era scrivere poesie, e che il suo datore di lavoro era Dio. Del resto, certi processi sono una parodistica rappresentazione teatrale. Quando toccò a lei parlare davanti alla corte, Berkovich mise in versi la propria difesa, denunciando l’inconsistenza e l’arbitrio dell’accusa.

Della sua storia hanno scritto in molti, ed eloquentemente il suo maestro, il celebre regista Kirill Serebrennikov, oggi fuoruscito dalla Russia, che le ha rivolto una vera dichiarazione di amore e di ammirazione, e le ha dedicato la sua proiezione a Cannes. Berkovich si era rifiutata di abbandonare il paese. Rispondendo a una domanda alla esiliata Novaya Gazeta lo scorso novembre, aveva detto: “La cosa che temo di più è di avere paura”.
Nello stesso lunedì 8 luglio, a Mosca, i titolari del Cremlino e i loro cortigiani denunciavano il carattere truffaldino della democrazia francese che aveva sottratto alla loro beniamina Marine Le Pen la vittoria elettorale. Con la democrazia regolata della Federazione russa Le Pen avrebbe vinto il ballottaggio col 90 per cento dei voti: le sarebbe bastato disporre già, magari per la quinta volta, del potere, pieno.

Sabato 6 luglio, Vladimir Kara-Murza, 41 anni, giornalista, attivista, politico, regista, già premio Havel e premio Pulitzer, già sottoposto a due tentativi di avvelenamento, nel 2015 e nel 2017, già arrestato nel 2022 per aver “diffuso notizie false” sull’invasione russa in Ucraina, e condannato a 25 anni di carcere per “alto tradimento”, era stato trasferito nel reparto sanitario del carcere isolato in cui è detenuto, senza poter incontrare avvocati e famigliari.

Lunedì 8 luglio, mentre si scavava nelle macerie dell’ospedale infantile di Kyiv, il presidente della più grande democrazia del mondo, Narendra Modi, in visita a Mosca, abbracciava calorosamente Vladimir Putin, ricercato dalla Corte Penale Internazionale, cui peraltro l’India, lungimirante, non ha aderito.