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Piccola Posta

Come è andato il convegno "Io non so parlar d'amore", di Ristretti Orizzonti

Adriano Sofri

C'è stato una settimana fa, al carcere Due Palazzi di Padova, ed è dedicato al tema dei legami affettivi per i detenuti. Racconti

Una settimana fa il convegno intitolato “Io non so parlar d’amore” si è poi tenuto davvero, al carcere Due Palazzi di Padova, organizzato da Ristretti Orizzonti, e ispirato alla sentenza di gennaio della Corte Costituzionale secondo cui, in sostanza, non c’è bisogno di alcuna legge ad hoc per riconoscere il diritto dei detenuti, e dei loro famigliari, a non essere amputati della propria vita affettiva e sessuale, e che si tratta soltanto (soltanto!) di metterlo in pratica. Si può riconoscere qui un elemento costitutivo del supposto stato di diritto: che c’è sempre bisogno di chiarire di che cosa non c’è bisogno. Lo si sta chiarendo da almeno tre o quattro decenni, mentre altrove lo si fa come una cosa ovvia, in Norvegia o in Albania, e in altri 29 paesi!

Il convegno ha avuto una partecipazione piuttosto straordinaria di famigliari e detenuti, magistrati e direttori, avvocati e giuristi, volontarie e intellettuali, agenti e assistenti e assessore, mediche e psicologhe e sessuologhe… La sua intera registrazione prende 5 ore e 25 minuti, è, nitidamente, su Radio Radicale. Dunque ne riparleremo, quando l’avrete guardato e ascoltato. 5 ore e mezza sono tante, direte. Infatti, tutto quello che ha a che fare col tempo sta al cuore della galera. Francesca Melandri l’ha sottolineato, a cominciare da quel “a quanti anni ti hanno condannato” che è, prima di “quanti anni hai”, il segno particolare di identità del carcerato. Un giorno o l’altro si farà un convegno sul concetto di “anni”. Io, quando ci fui dentro, sbrigai la cosa con uno scambio all’aria, lo presero per una battuta. A: “Che ora è?” B: “Le tre e quaranta”. A: “Ancora le tre e quaranta? Non passano mai, ’sti ventidue anni!”. Il fatto è che la contraddizione più straziante del carcere riguarda i due opposti desideri: quello di dare un po’ di senso al tempo da trascorrerci dentro, e quello di anestetizzare, ottundere quel tempo – addormentarmi stasera e svegliarmi fra ventidue anni. La seconda cosa è larghissimamente praticata a suon di farmaci, e del resto ha una sua lucida dignità: la reclusione, quando non prema una vera forza maggiore, è così stupida che un suo ragionevole travestimento è una resa. D’altra parte, decidere di sopravvivere e cercare dei surrogati alla vita è una specie di impegno abbastanza naturale negli animali umani, tanto più quando non siano soli e abbiano qualcuna, qualcuno cui tenere più che a se stessi.

Così è anche per affetti e amore, mogli, compagne (mariti, compagni, per il 4 per cento di detenute donne) e, per le une e gli altri e altri ancora, figli e genitori. Ornella Favero, animatrice prima di Ristretti – era, e immagino che sia ancora, una bravissima slavista – si è fatta prestare dal papa la frase: “La tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”. Inaspettatissima, quanto alla realtà delle istituzioni competenti, la cui immagine è macchiata da suicidi, violenze, sovraffollamento, cinismo, umiliazione di guardie e ladri. “E avrebbero bisogno di parlare un linguaggio nuovo, di trovare le parole giuste per coinvolgere tutti gli attori in gioco, operatori, volontari, persone detenute, loro famigliari, in quella rivoluzione che la sentenza della Corte Costituzionale prefigura, quando parla della desertificazione affettiva prodotta dal carcere, e apre la strada all’irrompere dell’amore nelle galere”. L’irrompere dell’amore in un giacimento di analfabeti amorosi: roba forte.

Dalla cronaca che ne ha fatto Elvira Scigliano per il Mattino di Padova, estraggo questo racconto del detenuto Marino: “La mia bambina più grande, Carlotta, ha iniziato ad avere crisi epilettiche dopo il mio arresto. Erano provocate dall’angoscia perché io non ero più a casa: aveva appena 7 anni. Quando poi ha iniziato a venire a trovarmi, prima di avere una crisi si nascondeva nell’armadio: voleva condividere con me la prigione, a modo suo”. E un altro brano di Scigliano mi è piaciuto specialmente: “Il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo, conferma: ‘Abbiamo gli spazi e molti detenuti che avrebbero diritto alla stanza dell’affettività. La sentenza spiega chiaramente che non è necessario aspettare il legislatore, dunque siamo in attesa delle linee guida che usciranno dal tavolo tecnico aperto dal Governo per agire concretamente’.” E conclude, la cronista: “I detenuti non sono molto fiduciosi: non credono si realizzerà mai”. Ecco un caso di concordanza incoraggiante: io sono d’accordo col direttore Mazzeo, e ancora più d’accordo coi detenuti scettici. Ora aspettiamo l’irruzione, da qualunque parte provenga.

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