(foto Ansa)

Piccola posta

Non chiedetevi perchè Ousmane si è ucciso, ma perché gli altri sono ancora vivi

Adriano Sofri

Cpr e carceri. La sola colpa è essere lì: servirebbe un'inchiesta sui prigionieri del Centri per il rimpatrio che, pazzi, non si sono ancora ammazzati

Ho letto tutto quello che trovavo sul ventunenne Ousmane Sylla, tanto. Ho letto Annalisa Camilli, su Internazionale. Ieri, sul Manifesto, a firma di Giansandro Merli, un ennesimo articolo sul suo soggiorno italiano, che è inevitabile descrivere come un calvario dalle stazioni via via più precipitose, fino al messaggio ultimo. Una vittoria esemplare dei nemici delle migrazioni: arrivato fin qua, nel modo in cui si arriva dalla Guinea o dal resto del mondo, desiderava più di ogni altra cosa di tornare a casa sua, a casa di sua madre. Anche questo era impossibile, ho letto, perché aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il rimpatrio in Guinea non è autorizzato da un accordo. Se non lui, la sua spoglia poteva sperare di tornare a sua madre, l’ha scritto su un muro prima dell’alba e si è impiccato.

Ho pensato e scritto innumerevoli volte che coloro che sono addestrati e pagati per occuparsi di questi disastri dell’umanità, e tutti gli altri che se ne occupano gratuitamente perché sono restati umani, non dovrebbero interrogarsi tanto sulle ragioni che hanno spinto Ousmane Sylla a uccidersi; dovrebbero chiedersi soprattutto come mai tante altre e altri come lui non si uccidano. E’ questo a stupire. La mia raccomandazione è ignorata, o tutt’al più messa in conto a un gusto per il paradosso. Imbecilli. Autori e complici di un sistema paradossale teso ad annichilire il senso della vita e a rendere desiderabile la morte. Si chiede loro di spiegare i troppi suicidi in carcere: spieghino come mai tanti altri non si suicidino.

E tuttavia, inetti come sono a riconoscere il proprio paradosso, alla fine, quasi senza volere, senza sapere, lasciano trasparire la verità. “Sulla morte di Ousmane è stata aperta un’istruttoria per istigazione al suicidio”. Un dovere d’ufficio, un mero passaggio burocratico. Basterebbe che ripensassero al senso delle parole. Queste carceri istigano al suicidio, e occorre una tempra di acciaio o un’anestesia totale per sottrarvisi. Il Cpr è un luogo concepito per istigare al suicidio. Non ha nemmeno il vecchio alibi carcerario di punire qualcosa, qualche reato, qualche trasgressione. Punisce la colpa di esserci, e di essere arrivati fin là. Poi ti dà, grazie alla strage di Cutro, ben diciotto mesi per portare a compimento la finalità d’istituto. Si apra un’inchiesta sui prigionieri del Cpr che, pazzi, non si sono ancora ammazzati, e che, valli a capire, all’alba, quando hanno trovato Ousmane e hanno letto il suo saluto sul muro, mettono a fuoco la parte di mondo cui sono riusciti ad arrivare da tanto lontano.

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