(foto Ansa)

Piccola posta

Il privilegio di avere ancora le mani e i ricordi

Adriano Sofri

Su Ilaria Salis. E su cose che capisco bene, come quando leggo certe parole. Una di queste è "manette"

Leggo: “Il nostro sistema nervoso è composto da milioni di cellule” e penso che se avessi letto: “... è composto da miliardi di cellule”, non avrei battuto ciglio. Non so niente, sono inutile. Leggo: “Si potrà scrivere sul pc senza le mani”. So rallegrarmi per quello che significherà per chi è privato dell’uso delle mani. Poi mi viene in mente che almeno questo era già possibile, da un bel po’. Un impianto cerebrale che controlli un macchinario esterno capace di scrivere o dire quello che uno pensa è molto vicino a un cervello rassegnato a scrivere e dire quello che il macchinario pensa. Infine: la constatazione della mia inettitudine deve influire sulla sensazione che Elon Musk sia una delle più grosse teste di cazzo del mondo?

Come che sia, io resto avvantaggiato, ho le mani, ho i piedi. Ci sono cose che al momento capisco meglio di qualunque impianto cerebrale di elettrodi. Per esempio, quando leggo la parola “manette”. Usata così in titoli e cronache per descrivere la faccia originaria del bondage, la ferraglia e il cuoio in cui è inchiavardata Ilaria Salis. (Ironico, no? L’Orban nemico giurato di LGBT ecc.). Manette! Catene e cuoio a mani piedi e girovita, lucchetti, guinzaglio. Alla quinta occasione Salis è stata ripresa dalle telecamere e fotografata. Un delitto svergognato dell’apparato ungherese, e un formidabile errore di casting. Lei che sorride – a suo padre, nell’aula – così in ceppi costerà, un’ennesima volta, più di una battaglia perduta. All’Ungheria dispotica, e ai maramaldi italiani.

Quando Enzo Carra, in piena tangentopoli, testimone reticente e mite democristiano, fu portato dal carcere in tribunale con gli schiavettoni ai polsi, era il 1993. Solo un telegiornale ebbe la decenza di mostrarne l’immagine. Un mese dopo una circolare del ministero della giustizia stabilì che fossero vietati i mezzi di coercizione fisica dove “non ricorressero gravi esigenze di sicurezza”. Lo schiavettone è il ferro massiccio con due spazi in cui i polsi sono sovrapposti e una chiusura a vite che stringa su misura. La misura della stretta è un’autobiografia del carceriere. Con lo schiavettone non è possibile nemmeno il movimento minimo delle mani ammanettate.

Vengo a me, alle mie mani. Nel 1988 fui trasportato – tradotto – dal carcere lombardo alla Toscana. Dopo un primo e ultimo interrogatorio dell’intera indagine che mi riguardava, in cui gli inquirenti sbatterono frontalmente contro la loro entusiastica cantonata, e dunque rinforzarono il loro proposito di farmi fuori – alla lunga riuscito - per il momento mi rispedirono a casa. I carabinieri allora addetti (poi l’incombenza sarebbe passata agli agenti penitenziari) non solo mi stimarono da schiavettone, ma me lo avvitarono dietro la schiena, in modo che non avessi alcuna possibilità di reggermi con le mani dai sobbalzi del furgone che mi portava. Non dissi una parola. In prossimità dell’arrivo – a casa mia si arriva per stradine di campagna, e la concitazione fu tale che il furgone andò a sbattere contro l’arco in pietra dei miei vicini – ricevettero l’ordine di togliermi i ferri, regalo al quale mi opposi vittoriosamente. Fregiarmi di quei ferri dietro la schiena era un piccolissimo modo per far vergognare le autorità costituite.

Direte: ma parli di te, mani e piedi liberi, quando questa giovane e valorosa donna è ostaggio di un regime di energumeni? Sì, ci ho pensato. E’ il mio modo di stare dalla sua, e contro i suoi nemici. E di usare del privilegio di avere ancora le mani e i ricordi. Di essermela legata al dito, di legarmela al dito, Ilaria Salis.

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