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L'abiezione di Hamas non abolisce la proporzionalità

Adriano Sofri

Il ricatto degli scudi umani, la domanda su chi spara, i doveri di chi è condannato a combattere per esistere

Caro Claudio Cerasa. Ci sono frasi piene di senso, che pronunciamo con convinzione, insieme. Poi viene voglia di pensarci su. Hamas, diciamo, abusa anche della gente di Gaza come di scudi umani, oltre che degli ostaggi rapiti. Ci fermiamo qua? Qual è la conseguenza? Tu hai intitolato: “I civili di Gaza sono tutti sulla coscienza di Hamas”. Ma non è così, non solo. Se fosse così, non esisterebbe la questione degli scudi umani. Hamas non ce l’ha la coscienza, e se ce l’ha è diversissima dalla nostra, oltre che dal famoso diritto internazionale. Ho scorso quello che se ne dice: nell’art. 28 della Quarta Convenzione di Ginevra, nell’art. 51 del Primo Protocollo Addizionale, nell’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, o in documenti meno universali, come il Manuale sul diritto di guerra del dipartimento di stato americano (2015). Antico come il mondo, cioè come la guerra, l’impiego di scudi umani si è moltiplicato via via che cresceva la capacità di risonanza dei mezzi di informazione.

Chi è abituato a trovarsi dalla parte “regolarmente” più forte tende a ridurre la proporzionalità necessaria ad agire contro chi faccia uso di scudi umani, all’opposto di chi conduca un’azione militare o di forza “irregolare” e tanto più se terrorista. L’impiego di scudi umani non può legare per intero e senza riserve le mani al nemico. Ma appunto chi si stia battendo contro un obiettivo militare deve osservare una proporzione fra il suo legittimo scopo e il danno “collaterale” che ne può derivare alle vite dei civili e delle persone protette: “L’uso di scudi umani da parte di una delle parti in conflitto non libera l’altra dalle obbligazioni del diritto internazionale umanitario…”. E’ abbastanza in voga oggi un’irrisione del “diritto umanitario”, come di un lusso superfluo e comunque di una irrilevante litania. Ma dietro – o davanti – al “diritto internazionale” sta una questione morale decisiva per la scelta di ciascun attore, singola persona o banda armata o stato. L’infamia di chi si serve di scudi umani, per la sua rapina in banca o per la sua guerra mondiale, non toglie affatto a chi le si oppone una drammatica responsabilità. Dovrebbe essere ovvio, ma sembra esserlo sempre meno. Se non lo fosse più, il riferimento stesso agli “scudi umani” non avrebbe ragione di sussistere: “Peggio per loro”. Sussiste, perché si riconosce una differenza fra coloro che vi fanno ricorso e coloro cui il sacrificio di innocenti ripugna. E non si può invocare, per accantonare il dilemma, la situazione di emergenza in cui si presenta: l’impiego di scudi umani è per definizione un’emergenza estrema – benché non faccia che diffondersi, e raggiunga dimensioni tremende come quella della popolazione civile di Gaza. Sebbene a denunciarla sia, fra tanti, la Cina degli uiguri e del Tibet, la “sproporzione” di bombardamenti e coazione al trasferimento della popolazione civile non è meno vera. (Il diritto, se non sbaglio, non è stato abbastanza lugubremente fantasioso da immaginare che il crimine di guerra del trasferimento forzato della popolazione civile all’interno di uno stesso territorio non venga addebitato a chi lo “difende”, ma a chi attacca, com’è oggi a Gaza). L’assalto di Hamas del 7 ottobre ha una portata spaventosa di ferocia e abiezione, ma questo appunto stabilisce un termine alla proporzionalità della risposta, non la abolisce. 

C’è bensì una “dottrina” favorevole a ridurre fino ad abolirla la responsabilità di chi si confronta con l’abuso di scudi umani, sostenendo che segnerebbe una disparità inaccettabile fra gli opposti belligeranti. E arrivando a prevedere che, se il ricatto degli scudi umani venisse bellamente ignorato – qualcuno è maestro, per esempio il Putin della scuola di Beslan e del teatro Dubrovka – si cesserebbe di ricorrervi. Pretesa che, nel suo esplicito cinismo “realista”, mette sullo stesso piano “belligeranti” come, oggi, Israele e Hamas, che è esattamente ciò che si vuole rifiutare. (Osservo che in parecchie circostanze Israele in passato seppe sfuggire a diatribe come la tipicamente nostra su fermezza e trattativa, mettendo al primo posto la salvezza degli ostaggi e rinviando puntualmente la punizione). Comunque, anche le posizioni più spinte in questa direzione, come quella dell’aeronautica militare degli Stati Uniti, dichiarano la possibilità di “attaccare obiettivi legittimi protetti da civili e considerarli danni collaterali, purché non risultino eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che ci si aspetta di ottenere”. 

In un’altra, più precoce puntata della guerra perenne, nel 2009, Stefano Levi della Torre, chiarendo che “l’ostilità che circonda Israele non è solo rivolta alla sua politica, ma alla sua stessa esistenza”, scrisse: “Si dice, spesso a ragione, che i terroristi si fanno scudo dei civili. Dunque i civili sono ostaggi. Si massacrano gli ostaggi? La pratica degli scudi umani è ignobile perché espone cinicamente degli esseri umani al sacrificio, ma perché dovrebbe essere meno ignobile l’azione di chi quel sacrificio lo compie sparando comunque? O forse la convivenza della popolazione con Hamas è intesa di per sé come connivenza, nell’idea aberrante di una colpa collettiva a giustificazione del massacro. Ma non è questa un’idea esattamente simmetrica a quella dei terroristi contro cui si combatte, non solo per necessità ma anche in nome dei ‘nostri princìpi superiori’”?

Non ti scrivo per esporre un dissenso. Un eventuale dissenso è la situazione ordinaria della mia ospitalità qui. Provo a far emergere un tema che ci riguarda intimamente. In alcune prese di posizione di questi giorni sembra che l’antico occhio della pietà si voglia chiudere: in realtà, si è così spalancato sul pogrom del sabato 7 da imporsi di chiudersi sui contraccolpi, come temendo che una pietà distribuita si diminuisse e facesse torto alle vittime proprie. Lo provo anch’io. In questi giorni si è riletta – lo si faccia di più, e senza limitarsi alle citazioni, andando da capo a fondo – la commemorazione che Moshe Dayan fece, il 29 aprile 1956, del suo amico Roy Rotenberg, agente ventunenne ucciso nel suo kibbutz al confine di Gaza. “Ieri all’alba Roy è stato assassinato. La quiete della mattina di primavera lo aveva accecato, e non ha visto coloro che, nascosti dietro il fosso, lo volevano morto. Non dedichiamoci oggi a deplorare i suoi assassini. Che cosa possiamo dire del loro odio terribile verso di noi? Da otto anni si trovano nei campi profughi di Gaza e hanno visto come, davanti ai loro occhi, abbiamo trasformato la terra e i villaggi che erano loro, dove loro e i loro antenati abitavano in precedenza, facendoli diventare casa nostra”. Si può dire, e quando lo disse Dayan voleva dire “Siamo condannati a combattere”, non invocava la pace – lo avrebbe fatto, più tardi. In Israele, non solo su Haaretz, voci rigorose e impavide si levano a denunciare le colpe del governo e di un’intera storia. Ce ne si serve a vanvera. Noi, alcuni di noi, non riusciamo a essere altrettanto rigorosi. Io non posso essere così reciso, perché non sono ebreo (credo: nessuno può dirlo, di sé) e ancor meno ebreo israeliano. Sono (forse) meno legato all’ebraismo, ma più responsabile. Corresponsabile.

Mi ero interrogato sulla frase del cancelliere Scholz: “La nostra storia, la nostra responsabilità derivante dall’Olocausto, ci impone il dovere perenne di difendere l’esistenza e la sicurezza dello stato di Israele”. Ieri Maurizio Maggiani ha protestato vivamente – “un lavacro di coscienza sulle spalle degli altri” –  ed Ezio Mauro ha vivamente approvato – “la democrazia del dovere”. Io dubito, ma in quella frase è implicita, con il peso schiacciante che le viene dal vincolo con uno stato e il suo passato, la responsabilità personale cui alludo, e che riguarda la sopravvivenza di Israele. Oggi qualche vecchia canaglia e molti giovani senza memoria mostrano di non aver più bisogno di mascherare sotto il nome di antisionismo il loro antisemitismo, e forse anche dire questo è troppo, rispetto all’insofferenza che esibiscono al nome di ebreo. Della Shoah, quando credono di sapere che cos’è, la considerano usurpata e la dichiarano prescritta. A Odessa, a Sderot, a Gaza, forse siamo davvero sull’orlo di un precipizio che appena due o tre anni fa non sapevamo nemmeno immaginare. Quando si arriva al punto, bisogna mirare alla salvezza. Chi ha memoria è un po’ meno libero. Aveva un passato mirabile Willy Brandt, e non era libero, e perciò si inginocchiò davanti al monumento alla rivolta del ghetto a Varsavia nel 1970. Ciò cui può appigliarsi chi è fuori e non veda una luce è l’immedesimazione: che cosa farei se fossi ad Ashkelon, che cosa se fossi a Gaza. Non saprei che fare, probabilmente, e allora che cosa pregherei che succedesse, o che non succedesse. Per che cosa sto pregando.

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