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Il generale vietnamita Giap a dieci anni dalla morte. Il significato di un monosillabo

Adriano Sofri

Chi non c'era in quegli anni non se lo immagina nemmeno. Leggendario è il caso di un compagno romano, primi anni 70, interrogato se avesse un cane risponde che sì, è un doberman e "si chiama Giap, come tutti i cani di Borgata Alessandrina”

A dieci anni dalla morte di Giap, Milena Gabanelli ha pubblicato sul Corriere una bellissima rievocazione dei suoi incontri con lui, dal 1990 al 1998. Vo Nguyen Giap e Ho Chi Minh erano fatti per stare insieme, agli occhi e nel cuore dei giovani del mondo. C’è la fotografia del 1945, lo zio Ho in calzoncini e sandali, Giap in un completo bianco di lino e cravatta, era già un poster, Franco Angeli la ridipinse variamente. Erano fatti per stare bene insieme nello slogan, Giàp-giàp-Hocimìn, un po’ come Hip-hip-urràh. La gelata arrivò presto, già dal 1976, coi boat-people: bisognerebbe ristamparle e ritrasmetterle ora le immagini del 1979 degli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e della nave appoggio Stromboli mandate da Pertini e dal governo italiano nel Mar cinese meridionale, a 12 mila chilometri dall’Italia, a caricare un migliaio di quei disperati, la gioia dei salvati, l’entusiasmo dei salvatori e la commozione del pubblico restato umano.

Alla delusione scamparono ambedue: Ho Chi Minh perché era morto nel 1969, Giap perché è vissuto in disparte e in dissenso dal regime. Gabanelli, autrice di una memorabile intervista a Giap per il “Mixer” di Minoli nel 1998, insieme al grande Ettore Mo, è stata una franca e affettuosa testimone dell’accantonamento del generale. Arrivarono a non nominarlo più se non quando non si poteva farne a meno, e anche allora con una perifrasi, e lui se ne è rivalso tenendo duro fino ai 102 anni, con la vita che aveva fatto. Chi non c’era in quegli anni non immagina che cosa significasse il suono di quel nome monosillabo. E’ leggendario il caso di uno dei nostri compagni romani, primi anni 70, fermato per una manifestazione e interrogato se avesse un cane, a domanda risponde: sì, un doberman, e come si chiamasse, A.D.R.: “Giap, come tutti i cani di Borgata Alessandrina”.

E parecchi anni dopo, una sera, dal ristorante senese “Le Logge”, i miei amici Gianni e Laura mi telefonarono con una voce rotta dall’emozione, perché avevano a un tavolo il generale e signora, “lui, proprio lui, Giap-Giap-Hochiminh”.

Sulla scia dell’articolo, ho riguardato su RaiPlay l’intervista di Gabanelli a Giap e signora e il reportage su Dien Bien Phu, e ho pensato che abbia a che fare per molti versi con l’Ucraina, specialmente nella risposta di Giap sul vincere a tutti i costi, e del resto ho apprezzato molto che nel suo articolo Gabanelli abbia ricordato che “nelle piazze americane ed europee il grido era uno solo, ‘Usa go home’, e a nessuno è mai passato per la testa di chiedere alla Cina e alla Russia di smettere di riempire di armi il Vietnam”.

Lunedì sera ho rivisto Gabanelli nel dataroom al tg di La7, sul miliardo di multe che l’Italia paga a Bruxelles. Chissà se ha voglia di riprendere il largo. Non ero spettatore abituale di “Report”, benché avessi visto scorrere la scritta finale: “Gli abiti della signora Milena Gabanelli sono i suoi”. Avevo però visto il suo reportage, ancora con Ettore Mo, dalla Cecenia nella prima guerra, 1995. Mo avrebbe ricordato: “Ero arrivato a Grozny da Nazran, capitale dell’Inguscezia, con l’indomita telecronista Milena Gabanelli”. Ero ancora a Sarajevo, il loro racconto era formidabile, le immagini di Grozny facevano un’impressione terribile, pensai che avrei voluto andarci. L’anno dopo ci andai.

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