Lapidi a Srebrenica (Ansa)

piccola posta

La rete di Irfanka, nel segno della solidarietà e del ricordo di Srebrenica

Adriano Sofri

Una vita dedicata a soccorrere i profughi del genocidio. Lei e i suoi sono riusciti a dare una famiglia a migliaia di bambine e bambini, e una casa agli orfani che raggiungevano la maggiore età. È morta due giorni fa

Irfanka Pašagić è nata a Srebrenica nel 1953. E’ morta a Tuzla due giorni fa.

“Nei villaggi e nelle piccole comunità vivono le persone che sanno com’è stato. Ci sarà bisogno di tempo per dare, sia da una parte che dall’altra, un nome certo a tutti i carnefici. E a chi nei momenti peggiori è rimasto uomo. Ci sarà bisogno di tempo per riconoscere le vittime e far sì che gli uni agli altri dicano e sentano che gli dispiace. E quando ciò avverrà potranno dire di aver vinto. Il passato non può essere dimenticato. E non deve. Per andare avanti le lezioni del passato possono essere una bussola. Per indicare come si deve e come non si deve fare. Perché se di nuovo seppelliamo la verità e se la giustizia non raggiunge coloro che hanno compiuto il male, diamo di nuovo la possibilità che qualcun altro, sulle ferite mai guarite del passato, uccida altre nuove Srebrenica. Nel frattempo è necessario aiutarli a costruire. Insieme”.

E’ un testo di Irfanka. Ha studiato a Sarajevo e Zagabria, ha preso la specializzazione in neuropsichiatria, è tornata a lavorare nella sua città natale, dove è rimasta fino all’aprile 1992. Nel corso della prima ondata di pulizie etniche è stata deportata, raggiungendo dopo varie traversie la città bosniaca di Tuzla. Lì, nel 1993, Irfanka ha fondato il centro “Tuzlanska Amica”, nell’ambito della rete internazionale “Ponti di donne tra i confini”. A Tuzla, dopo la caduta e il mattatoio di Srebrenica nel luglio del 1995, arrivò una nuova ondata di profughi stremati e disperati, in gran maggioranza donne e bambini, vedove e orfani. Da allora, soprattutto grazie a un progetto di “adozione a distanza”, Irfanka e i suoi sono riusciti a dare una famiglia a migliaia di bambine e bambini, e una casa agli orfani che raggiungevano la maggiore età.
Grazie all’organizzazione olandese “Mala Sirena”, Irfanka Pašagić aveva realizzato un team mobile, per andare a cercare e assistere nelle campagne, tra gli oltre 250.000 profughi alloggiati precariamente nel distretto di Tuzla e Srebrenica, i casi più difficili e nascosti, dapprima con un aiuto umanitario, poi con un intervento anche psicologico per i componenti più vulnerabili delle famiglie. Soprattutto per donne e bambini vittime di violenza.

Sono alcune delle attività nelle quali Irfanka si è prodigata, in un legame stretto con Edi Rabini e la Fondazione Langer a Bolzano/Bozen – Alexander Langer se ne andò senza avere il tempo di vedere Srebrenica, Irfanka non ebbe il tempo di vedere Alex – e con la città di Bologna, il sindaco e poi parlamentare europeo Renzo Imbeni, l’assessora e presto stretta amica Lalla Golfarelli, e altre amiche preziose, la traduttrice dei suoi scritti Liliana Zufić e a Forlì la redattrice di “Una città” Barbara Bertoncin.

Attorno a Irfanka si era formata una rete di rapporti senza confini. Con attiviste della Serbia e del Kossovo. Con il progetto “Promoting a Dialogue: Democracy Cannot Be Built with the Hands of Broken Souls”, diretto dalla psicologa e traumatologa di New York Yael Danieli, per il quale si è recata più volte in Ruanda. Con un gruppo di giovani di Srebrenica di nazionalità diverse, la Fondazione Langer e Tuzlanska Amica, aveva formato dal 2005 l’associazione Adopt Srebrenica, raccogliendo le narrazioni orali delle persone così da ricostruire la vita quotidiana prima della guerra, curando i rapporti fra i residenti e i parenti e amici lontani.

“Parecchio tempo fa ho imparato che le ferite provocate dalla cattiveria umana possono essere curate solo con la bontà umana. Da anni lavoro con i bambini e i giovani che durante e dopo la guerra sono rimasti senza genitori. E le più grandi lezioni di vita le ho imparate da loro”. Ieri una rivista bosniaca ha chiesto a un giovane, Zijo Ribić, il solo di una famiglia rom di dieci persone sopravvissuto al massacro etnico a Zvornik nel 1992, che era stato fra i primi ospiti della casa, perché la morte della dottoressa Irfanka lo avesse così commosso: “Ho perso mia madre per la seconda volta”. Si capisce, e c’è da congratularsi, che opere significative, di autrici donne, della narrativa italiana recente, abbiano riservato una peculiare attenzione ai bambini di quella guerra.

Nel 2005, nel primo decennale del genocidio, ricevendo il premio della Fondazione Langer, Irfanka aveva parlato della relazione tra i bambini e le persone che li aiutano in Italia: “Questi bambini sono i migliori ambasciatori della solidarietà. E sono una testimonianza del fatto che per la solidarietà non esistono confini. Noi a ‘Tuzlanska Amica’ abbiamo opposto all’aggressione l’amore e la solidarietà. Penso che ci siamo riusciti. Questi bambini hanno diritto al loro sogno… Mi fa paura che si parlerà di Srebrenica nei media, nei dibattiti, eccetera, e che durerà un mese, e poi tutto tornerà come prima. Posso dirvi solo che l’unico edificio nuovo costruito a Srebrenica è una stazione di polizia, sistemata praticamente nel cortile di una scuola… Qui, prima della guerra, viveva un 75 per cento di popolazione musulmana, il 20 per cento erano serbi e il restante 5 per cento vari altri. Oggi Srebrenica si trova nella Repubblica Srbska. Prima della guerra c’erano 36.000 abitanti, oggi sono all’incirca 10.000. Prima della guerra gli scolari erano 11.000, oggi sono 1.000”.

Srebrenica si trova infatti nella Repubblica Srbska. Così finiscono – no, non finiscono: si interrompono – le guerre. Lasciando la città di un genocidio dentro il confine dei suoi autori. Irfanka, che ha dedicato senza fare storie la propria vita al suo prossimo, è morta di malattia un po’ per conto suo. Ha voluto così.

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