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La sfida di Biden al dispotismo. Se Kyiv può farcela, anche Taipei può

Adriano Sofri

L'annuncio che gli Stati Uniti sono decisi a difendere con le proprie armi l’integrità di Taiwan segna una svolta nel paesaggio del mondo. La possibile vittoria sul campo dell’Ucraina è diventata il modello sul quale misurare il confronto con la Cina

All’interrogativo se Putin potesse arrivare fino al ricorso alla bomba atomica non avrei saputo rispondere altro che: forse, non è escluso, è possibile. Ma non ho mai dubitato di un’altra cosa: che ne avesse una gran voglia. Che fosse attratto terribilmente dall’eventualità di illustrare il suo squallido stato di servizio con un record. Se non di essere il primo a ricorrere all’atomica, di essere il primo a rifarlo, e nella versione elegante della bomba miniaturizzata, “tattica”, e in un mondo in cui il monopolio della bomba ha ceduto a un oligopolio di nove potenze detentrici ufficiali, e chissà quali altri laboratori. L’andamento della sua operazione speciale, un seguito di disastri militari e di figuracce, non ha fatto che accrescere quella sua smania di omuncolo alle strette, e dare al suo desiderio il conforto della necessità obiettiva. Alle minacce atomiche dell’occidente è pronto a replicare con l’atomica: ce l’ha anche lui, infatti. Vedremo come i sostenitori dell’occidente che abbaia berranno anche questo sviluppo. Ne avevo appena sentito uno dire che dal momento che Usa e Regno Unito forniscono all’Ucraina armi “sofisticate” gli altri devono smettere di darne, che è una visione della divisione del lavoro internazionale sofisticatissima. 

A questo punto, all’interrogativo se Putin possa arrivare fino a ricorrere alla bomba atomica la mia risposta è: sì, certo. Non lo farà se sarà sicuro di esserne seppellito, e con lui il suo incubo imperiale, o se qualcuno di famiglia, o un riservista, o una banchiera centrale, lo chiuderà a chiave nello sgabuzzino degli ubriachi nel suo castello. 

Ma la sortita di Putin che sfida il grottesco, la messinscena dei referendum, la pretesa che facciano del territorio ucraino una parte di Russia, la chiamata dei riservisti che elude la mobilitazione generale – il reclutamento e l’invio al fronte dei figli di papà di San Pietroburgo e di Mosca, che farebbe insorgere i papà – e promette di aggiornarli prima di spedirli a morire ammazzati, e infine la minaccia di impiego di tutti i mezzi, non ha a che fare solo con la controffensiva ucraina che ha messo a mal partito il fisico e il morale del suo esercito. In particolare, è successo che l’annuncio di Biden, che gli Stati Uniti sono decisi a difendere con le proprie armi l’integrità di Taiwan contro le pretese della Cina, abbia segnato una svolta nel paesaggio del mondo. Vi diranno che ogni mossa di Biden è regolata sulla sua speranza di cavarsela alle elezioni di mezzo termine, e caso mai riproporre la sua candidatura. Resta il fatto che le parole dette non sono state, come in altre occasioni, smentite, e sono appese sopra le teste del mondo, e prima di tutto dei cinesi, che hanno mostrato di prenderle molto sul serio. Vi diranno anche che è una pazzia che un presidente americano così anziano e non di rado smarrito voglia spalancarsi davanti il doppio scenario di una guerra contro la potenza uscente, ancora carica di testate nucleari, e di una guerra contro la potenza entrante, a sua volta dotata di un arsenale enorme, oltre che dei numeri dell’economia e della popolazione. Ma Biden ha nell’avversione alla Russia in Ucraina e nel confronto con la Cina a Taipei una carta interna irresistibile contro i repubblicani e il loro titolare oltranzista, Trump, il quale può vantare che con lui la guerra di Putin non sarebbe avvenuta, e cantare le lodi di Putin in piena guerra, ma non può rinnegare la denuncia della Cina come il nemico principale. 

Di più: Biden era azzoppato dal precedente prossimo dell’abbandono indecoroso dell’Afghanistan, in cui Putin e i suoi avevano letto un’autorizzazione alla loro marcia su Kyiv. E ancora dopo il sostegno colossale offerto a Zelensky, una volta constatata la determinazione sorprendente sua e della sua gente, incombeva sulla resistenza ucraina l’incubo di una nuova diserzione americana. Ma anche questo sospetto – o questa speranza, questione di punti di vista – è almeno sminuito di fronte all’avvertimento di Biden a Pechino. I responsabili americani avevano presto dichiarato di credere nella vittoria sul campo dell’Ucraina, ma era una formula d’obbligo. Da quando il campo l’ha dimostrata davvero possibile, l’idea della vittoria militare, oltre che politica, ucraina, stupefacente rispetto alle premesse, è diventata anche un modello sul quale misurare il confronto con la Cina. Se l’Ucraina può farcela, Taipei può farcela. E se una resa dei conti fra “occidente”, o, se non vi piace, Usa e suoi alleati, e Cina è considerata inevitabile, tanto vale anticiparla e farla coincidere con il momento debole dell’alleato russo, che sarà pure eterno ma intanto è in ritardo nel confronto armato come nella riconversione dei gasdotti. Benché alla senilità evidente di Biden sia disadatta la parola di sfida, è questo che la sua presidenza sembra via via far proprio: la sfida fra democrazia e dispotismo, divenuta così ravvicinata e drammatica all’interno degli Stati Uniti, e divenuta bruscamente campale all’esterno. 

Nella giornata di ieri – Assemblea generale delle Nazioni Unite e allarme di Guterres sul loro esaurimento, mobilitazione parziale da parte di Putin ma subito letta dai suoi cittadini come una minaccia fatale sul loro futuro, tragica farsa dei referendum in Ucraina, voce grossa dei cinesi – i nodi si sono attorcigliati sullo stesso pettine. Immagine scadente, ma la uso volentieri per l’affinità con i capelli delle donne iraniane e curde, la parte più bella e significativa della sfida universale. 

Le ultime battute della campagna elettorale italiana strapazzano l’idea (e la pratica) d’Europa come nei momenti peggiori. Ma l’Europa della presunta guerra mondiale a pezzi che va aggregandosi attorno a due enormi pezzi imprevedibilmente connessi, nel centro dell’Europa e nel Nord-Pacifico, ha una gran parte da giocare, a suo vantaggio e più ancora per la sua salvezza. Ma gli europei sono vistosamente disfatti: ora si tratta di disfare l’Europa.

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