Angelo Pellino legge la sentenza contro Provenzano e Riina nel 2009 (Ansa) 

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I giudici spiegheranno la differenza tra un'indegnità morale e civile, e un reato

Adriano Sofri

La mafia non è mai stata “sola”. Ma ogni volta che tante persone leali e scandalizzate hanno sentito l'obbligo a una solidarietà senza la quale non restava che la viltà o la complicità con la mafia, hanno rischiato di cedere a un equivoco disastroso

Occorrerà moltissimo tempo per rimettere insieme i cocci di una conoscenza e un’interpretazione condivisa della tragedia italiana recitata da Cosa Nostra e dalla sua intimità con apparati del potere economico e politico. Almeno altrettanti anni di quanti ne ha impiegati una tesi che è apparsa a persone leali e sinceramente scandalizzate tanto più vera quanto più impegnata a mirare in alto. Fino al presidente della Repubblica, Napolitano, al suo principale collaboratore al Quirinale (morto tristemente lungo la strada), all’ex ministro dell’Interno Mancino, a un avvocato e giurista illustre ed ex ministro della Giustizia, Giovanni Conso, e giù lungo una nomenclatura capace di andare incontro al rifiuto di acquietarsi all’idea che si trattasse della “sola” mafia.

La mafia non è mai stata “sola”. Ma ogni volta che tante persone leali e scandalizzate hanno sentito di dover sostenere una interpretazione e le persone che la incarnavano, e che la fedeltà appassionata alla memoria di Falcone e Borsellino – e molti altri – le obbligasse moralmente a una solidarietà senza la quale non restava che la viltà o la complicità con la mafia, hanno rischiato di cedere a un equivoco disastroso. Per anni e anni sarebbe stato additato come un tiepido o un complice di mafiosi e poteri forti chi mettesse in dubbio la verità sulla strage di Borsellino e della sua scorta, confessata da Scarantino e dai disgraziati come lui condannati all’ergastolo duro: l’uno e gli altri incolpevoli, costruiti da uomini di spicco dello stato, perseguiti e condannati da stuoli di pubblici accusatori e giudici, ben oltre l’emergere della verità attraverso il vero autore. Aver creduto, per fede, in quel depistaggio forsennato, ha significato, oltre a un’iniquità che grida vendetta, un lungo favore ai veri colpevoli. Dunque, in nome del proprio fervido rigore antimafioso, aver favorito l’operato di mafiosi, uomini del potere economico, uomini delle istituzioni. 

La sentenza di Palermo è stata accolta con costernazione e stupefazione. E tuttavia era del tutto prevedibile (prevista, anche: perfino il Fatto aveva sentito di dover mettere la penna avanti, alla vigilia) se non per l’abitudine a pensare che i giudici non vogliano smentirsi. Ma i giudici d’Appello di Palermo avevano una quantità di altre sentenze precedenti a smentire quella del primo grado. Certo, la leggeremo la sentenza. Ci stupiremo davvero allora, vedrete, a leggere parole durissime contro comportamenti civilmente ignobili, tanto più indegni se messi a confronto con gli esempi di Falcone o Borsellino. Ma leggeremo anche una lezione ulteriore sulla differenza fra un’indegnità civile e morale, e il reato. Oggi commenti sinceri (quelli ipocriti e faziosi li ignoro) disegnano una Corte, e una giuria popolare, piegata e pressoché berlusconiana, e additano l’esultanza dei titoli di destra.

Prendano tempo, raccolgano testimonianze e idee. Rispettino la reazione di Salvatore Borsellino, ma riflettano su quella di Fiammetta Borsellino. Sul giudizio di Peppino Di Lello, che di quella famosa squadra di magistrati era il quarto membro. Di Alfonso Giordano, che presiedette lo storico maxiprocesso. Leggano – si trovano in rete – le sentenze di Angelo Pellino, il presidente della corte d’Appello palermitana. Quella per l’assassinio di Mauro Rostagno, che offre un quadro terrificante dei poteri cittadini mafiosi, della massoneria e dei servizi di Trapani. Leggano – occorre pazienza e tempo, sono ogni volta un paio di migliaia di pagine – la sentenza del 2012, redatta da lui giudice a latere, sull’omicidio De Mauro, dove Totò Riina viene assolto perché non c’è la prova, ma si afferma che a motivare l’omicidio fu la denuncia che, a tanta distanza di tempo, De Mauro stava muovendo agli attentatori all’aereo di Enrico Mattei. 

Pellino è stato giudice dei processi per l’assassinio di padre Puglisi, del valoroso Libero Grassi, di Peppino Impastato (scrisse la sentenza che condannava a 30 anni Vito Palazzolo; nel depistaggio contro Impastato il generale Subranni assolto l’altroieri, allora maggiore, ebbe un ruolo infame), del giornalista Mario Francese. Commentatori di ogni parte sarebbero sorpresi di scoprire quali pensieri politici coltivi il giudice. Dovrebbero ricordarsi almeno di quello che disse affabilmente in apertura del processo: che si sarebbero vagliate solo le posizioni personali rispetto all’accusa, e che “può accadere che in un processo che riguarda fatti molto eclatanti la riscrittura di un pezzo di storia di un paese sia un fatto inevitabile, ma non deve essere cercata”. Ecco perché questa volta specialmente ha un senso non ipocrita dire: bisognerà leggere le motivazioni.