Walter Siti (LaPresse) 

piccola posta

Va bene dubitare del nostro sistema di valori, ma a Walter Siti dove piacerebbe vivere?

Adriano Sofri

È giusto, come lo scrittore, farsi domande sull'universalità del modello occidentale. Ma oggi le risposte ci arrivano non dal nostro interno, ma dagli invasati del martirio, dal capitalismo comunista di Xi Jinping o dal neozarismo di Putin

Col titolo “Siamo sicuri che i nostri valori siano universali?” il mio amico (sul serio) Walter Siti dice che dopo l’11 settembre di vent’anni fa noi, cioè l’occidente, abbiamo quasi smesso di criticare il nostro sistema di valori. Abbiamo rinunziato al relativismo cui ci esorterebbero gli antropologi, se li ascoltassimo un po’ di più; abbiamo fatto del nostro particolare diritto un modello dei diritti umani, della nostra particolare politica la democrazia, del peculiare “divenire dei nostri rapporti fra i sessi” il progresso. Potete leggere le argomentazioni in cui sviluppa l’invito a riaccogliere il dubbio. Alcune sono paradossali, per esempio quella che ricorda come “il pericolo della musica” ricorra nella nostra miglior letteratura, “da Tolstoj a Thomas Mann”. Infatti: nella nostra musica il diavolo mette volentieri la coda, dal trillo di Tartini al blues, e ho ricordato che “La sonata a Kreutzer”, relazione ferroviaria di un uxoricidio, è candidata a una correzione del finale da parte dell’ultimo grido dei “nostri valori”. Farne un argomento per “relativizzare” il divieto talebano della musica è un forte eccesso di zelo. 

Il punto comunque non è nuovo: dal momento che i nostri valori vengono largamente e platealmente violati nel nostro mondo e specialmente nei mondi altrui, il problema sta nella loro falsa universalità, o nel nostro modo di praticarli? È fin troppo facile ricordare che in buona parte di quegli altri mondi, anche molto più vicini dell’Afghanistan talebano, Walter Siti sarebbe scaraventato dall’ultimo piano dell’edificio più alto, ammesso che arrivasse vivo fin lassù. Facile ma tristemente vero. 

C’è un precedente ancora fresco, la renitenza a riconoscere che nel comunismo, e non solo nella sua “reale” applicazione, stesse un tarlo grave di futuro. E noi le facciamo così grosse in giro per il mondo da dover metodicamente dubitare di noi stessi, e il dubbio del resto è la condizione dei valori di cui andiamo fieri. Ma scolare e studentesse e donne afghane che amino la musica e desiderino “il divenire dei nostri rapporti fra i sessi” almeno fino al punto di scarcerarle dalla loro feroce galera, sono un fatto, non una nostra invadente opinione. È vero, ci sono “strutture di pensiero millenarie” che non si può pretendere di superare frettolosamente e chirurgicamente: ma quella che si va tentando in una parte del mondo, segnatamente i luoghi dell’offensiva jihadista, è la restaurazione delle “strutture di pensiero millenarie” messe in causa dalle persone, giovani e donne soprattutto, che non ne sopportano più il peso.

Si deve tornare a chiedersi se il sistema economico cui apparteniamo e di cui siamo in quote diverse beneficiari non possa esistere se non smentendo i valori che, prima e dopo l’illuminismo, ha proclamato. Le risposte sono venute e bisogna continuare a pretenderle, ogni volta che la prova dei fatti le mette in mora. Però facciamo i conti anche con le risposte sempre più strafottenti che ci arrivano non dal nostro interno ma da quegli altri mondi: non dell’animismo africano che sa convocare gli antenati né della madre terra solidale indiana e latinoamericana, sistemi a loro volta schiacciati e travolti, ma degli invasati del martirio o del capitalismo comunista/comunismo capitalista di Xi Jinping o del neozarismo di Putin, fresco vincitore di democratiche elezioni. 

“L’indifferenza alla morte individuale – scrive Siti – ora per esempio dà un vantaggio inestimabile a certe forme di terrorismo”. Già. Allora che facciamo? Rivediamo il nostro attaccamento alle vite individuali, o stiamo attenti, a cominciare dal gioco dei droni, a voler altrettanto bene alle vite individuali altrui?

C’è una piccola domanda non solo demagogica: dove preferiremmo vivere? E se non qui, e se non abbiamo impedimenti che vanno oltre la nostra volontà, perché non ci andiamo? 

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