Una manifestazione delle donne a Kabul (foto LaPresse)  

piccola posta

Quello che si è restituito ai talebani sono le donne. Appunti sul dopo Kabul

Adriano Sofri

Il virilismo fanatico e truce ci disprezza perché teniamo alla vita, sappiamo colpire solo dall’alto e da lontano, e battiamo in ritirata abbandonando i nostri protetti, le nostre protette, alla vendetta. L’abbiamo appena fatto in Afghanistan

Pro memoria sul dopo-Kabul, prima di distrarci. 

Perché ci odiano. Soprattutto perché siamo colpevoli di abigeato, all’ingrosso. Vogliamo rubare loro le donne. Anzi, abbiamo proclamato di avergliele tolte e lasciate libere. Così, ora, quello che è successo è che se le sono riprese: gliele abbiamo restituite. Non facciamo finta di sbigottirci di una tanto primitiva barbarie. Possiamo capirli così bene, così intimamente attraverso i nostri femminicidi. Da noi l’intera società ha ceduto, prima il costume, poi le leggi, e sono singoli uomini a riprendersi con la forza la donna che vuole strappare la cavezza. Resistenti solitari, retroguardie scellerate in una società appena civile, che si prendono per avanguardie della riconquista universale. Il loro modo di immolarsi è uccidere la “loro” donna. 

L’intervento “umanitario” è militare e i militari sono maschi. Siamo ancora lì. Se la posta era quella, non bisognava che fossero eserciti di uomini a farsene paladini: uomini contro uomini. (Delle donne che figurarono nell’impresa, finalmente sappiamo dire almeno il nome di Monica Contrafatto, prima medaglia al valore militare e medaglia paralimpica. Finora, avremmo saputo ricordare solo quella Lynndie England, la volonterosa torturatrice di Abu Ghraib, che mandava le fotografie ai famigliari lontani, perché fossero fieri di lei). 

Che cosa avrebbe voluto dire che fossero donne a farsi paladine della causa di donne e bambine afghane? Sulla scala adeguata, intendo, ben oltre i legami preziosi di minoranze come Rawa (l’associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan) e, da noi, il Cisda (il coordinamento italiano sostegno donne afghane). E che cosa vuol dire paladini? C’è un ricordo di cavalleria, di valorosi dediti alla protezione di vedove e orfani, devoti alla loro donna gentile. Prima le donne e i bambini, nei naufragi. Il naufragio nei cieli afghani è stato colossale, quanto il disastro della protezione. Si salvi chi può. Che rapporto passa fra la riduzione progressiva del dualismo sessuale da noi e il ripristino, la restaurazione del dualismo sessuale più rigido e arcaico da loro, dove – nelle città, e non una sola volta – era stato intaccato? Solo nelle città, certo, e in parte: ma la distanza fra città e campagna vale, fatte le proporzioni, per l’Afghanistan come per la Turchia o per l’Inghilterra e per gli Stati Uniti. Se si trattava di una guerra per le donne e sul corpo delle donne, e soprattutto, non una guerra di conquista, ma di riconquista; di donne evase, o che sognavano di evadere (non si puniscono gli atti, ma i sogni e i propositi, a Herat e a Kabul); di donne che hanno visto che si poteva.

Lo avevano visto in tv, da molto lontano, lo hanno imparato attraverso il femminismo, se non quello programmatico e impegnato, quello del costume. Delle cose che contano, che segnano la cortina di ferro tra due mondi, l’abbigliamento, la capigliatura! 

Tra gli italiani a Herat che responsabilità si è data alle donne? Ho potuto visitare il carcere femminile, l’università mista (le studentesse: “Ci credete tutte terroriste?”), l’asilo degli orfani, la giudice coraggiosa e l’organizzatrice dei rifugi per le donne. Ero accompagnato da un bravissimo colonnello. E in vent’anni, quanto e come ci siamo occupati di quello che avveniva nella società afghana? Del fatto, per esempio, che la giustizia, l’istituzione della giustizia, era stata confidata agli italiani? (Viene da sorridere amaro, vero?)

Ora in Afghanistan è evidente in modo clamoroso: si è restituito il popolo, si è regalato il paese ai talebani. Ma quello che si è restituito, regalato, ai talebani, sono le donne. 

Ci sono gesti che possono apparire sospetti di vanità, e sono memorabili: Fallaci che si scopre di fronte all’attonito Khomeini, Lucia Goracci che dice al talebano di guardarla negli occhi. Ci sono domande che sembrano troppo infantili e ridicole: che cosa farebbero gli uomini se si annegassero i neonati maschi, se ci fosse una guerra mondiale per la proprietà sugli uomini, sui corpi degli uomini? Certo, gli uomini hanno un vantaggio, hanno i bastoni, hanno gli eserciti. Gli uomini hanno vinto tanto tempo fa che il loro dominio sembra naturale, e l’obiezione contro natura.

Gli uomini possono sentire e dire (e fare) due cose. La prima: che è giusto che le donne abbiano condizioni di vita, di lavoro, di considerazione e di diritti pari a quelle degli uomini. La seconda: che la vita in una società che discrimina e opprime le donne è una vita infelice per gli uomini, e che l’amore in una simile società è un amore mutilato, dilapidato. Una distanza separa gli uomini che siano felici del piacere delle donne, dagli uomini che vogliono mutilare le donne della loro capacità di provar piacere. 

Il trumpismo è un contraccolpo di  molte cose – anche dell’Iraq, dell’Afghanistan, i veterani, e soprattutto il boccone amaro del presidente nero. E’ stato anche un tentativo di prevenire una presidente donna. 

Noi ci comportiamo come se la differenza stesse qui: che la sinistra pensa che ci odino per le nostre cose inique ipocrite e disgustose, e la destra pensa che ci odino per le nostre cose libere piacevoli e meravigliose. E’ una differenza grottesca. Noi dobbiamo essere fieri delle nostre cose buone e scandalizzati delle cattive. Oltretutto, è la condizione per smettere di annunciare che stiamo portando le cose buone, per spacciare le cattive. Non sappiamo cavare, mentalmente, la conseguenza dalle cose che diciamo e diamo per scontate: non ci crediamo davvero, dunque.

Il virilismo fanatico e truce ci disprezza perché teniamo alla vita, sappiamo colpire solo dall’alto e da lontano, e battiamo in ritirata abbandonando i nostri protetti, le nostre protette, alla vendetta. L’abbiamo appena fatto in Afghanistan, e poi abbiamo preteso di non aver mai fatto promesse di liberazione. L’abbiamo fatto tante volte. Poco fa coi curdi del Rojava – uno dei pochi luoghi  in cui le donne hanno deciso di liberarsi con le proprie forze. L’abbiamo fatto in un modo che ancora offende a Srebrenica, dopo aver giurato, generali francesi e segretari dell’Onu e colonnelli olandesi, che sarebbe stato il santuario dei fuggiaschi, e ne siamo fuggiti noi mentre i boia separavano donne e bambini – i paladini cavallereschi – da ragazzi e uomini, e li massacravano, 8.372 in pochi giorni di luglio. Il feticismo della preziosità delle “nostre” vite è alla radice del ritiro, e della rotta, dall’Afghanistan. (E della distribuzione planetaria dei vaccini, e del resto). Noi siamo quelli che avevano già stretto la mano dei talebani a Doha e intanto rimpatriavano i profughi afghani dall’Europa certificando che l’Afghanistan era uno stato sicuro.

Che cosa hanno ottenuto gli interventi militari, umanitari o no? In Bosnia, di metter fine a stragi e a un genocidio, e a una guerra civile, anche se non a procurare una vera pace, altro affare. In medio oriente, a metter fine al Califfato dell’Isis e alla sua enorme sfida territoriale, durata anni. Poi, le omissioni. Che cosa ha ottenuto la rinuncia a intervenire in Siria, dove pure Obama aveva fissato una linea rossa e la linea rossa era stata impudentemente oltrepassata? E in Sud Sudan? E in Ruanda, dove si dilazionò la constatazione del genocidio in corso, il tempo necessario a farlo compiere, per poi andare a commemorarlo chiedendo perdono per non averlo riconosciuto, come fece Clinton? Non si vuole rinunciare a dividere il mondo fra interventisti e pacifisti, e a prendersi per tipi d’un pezzo, senza se e senza ma.  

Si fraintende il mondo. Si va a Genova, si inscenano dichiarazioni di guerra e di assedio di cartone ai potenti della terra, si ride dello spauracchio che aerei o droni terroristi arrivino a colpire i potenti riuniti, e nemmeno due mesi dopo gli aerei civili trafiggono le Torri gemelle e il Pentagono. 

Si invita a misurare i risultati. E prendere atto del bilancio disastroso del pacifismo, quanto ai risultati? Quello più bello e ragionevole, quello del ripudio della stolida guerra in Iraq 2003, il pacifismo che si meritò la definizione, e l’illusione, di esser divenuto “la terza potenza mondiale”. E prendere atto che la cura delle ferite di guerra, la più nobile e generosa, non si misura con la prevenzione e la fine della guerra?

La stragrande maggioranza delle cosiddette guerre sono di despoti contro una parte del loro popolo. Una parte, perché i despoti hanno sempre un seguito, per ragioni di interesse materiale e di frenesie religiose e malintese identità. Hanno soprattutto la forza delle polizie e degli eserciti. L’occidente si è dotato di pezzi di una giustizia internazionale, ma che cos’è un tribunale internazionale che non abbia una polizia? La ribellione, si dice, deve nascere dal seno del popolo. Succede, infatti. Oggi, delle primavere arabe si parla quasi soltanto per deplorare che siano avvenute, ridotte a illusioni velleitarie e fautrici di rovina e di fuggiaschi alle nostre rive. In seno all’Iran, grande paese, la ribellione è nata e ha resistito a colpi tremendi, e aveva un suo cuore di donna. Ora abbiamo visto e ascoltato Tooba Lofti: “Mi chiamo Tooba Lofti, abito a Kabul, ho 34 anni e vengo dal Panshir. Se non ci sarò io, ci sarà qualcun altro… I paesi che ci hanno abbandonati prima o poi pagheranno un prezzo”.

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