Foto Alessandro Garofalo/LaPresse 

Piccola Posta

Maradona e quei calamai pieni di fango

Adriano Sofri

Accanto al cordoglio per il Pibe de Oro, uno stuolo di critiche inopportune

Che giornata rivelatrice quella del compianto per Diego Armando Maradona. Ho pensato che tutti i sentimenti fossero significativi, e motivati. Cioè, quasi tutti. Si poteva piangere come un Papa, come un’argentina o un argentino, o una napoletana o un napoletano. (Gli argentini di origine italiana, genovesi all’inizio, piemontesi, veneti, e poi meridionali, si chiamano “tanos”, che è l’abbreviazione di napolitanos). Si poteva diffidare della superstizione o del fanatismo del culto di Diego. Si poteva ammonire sulla sproporzione fra il cordoglio per uno solo nel giorno dei 750 portati via dal Covid – benché l’impulso a mettere a confronto le cose per stabilire una gerarchia morale sia cattivo consigliere: i confronti morali non hanno fine, nemmeno da Evita, nemmeno a Eva. Si poteva perfino tornare a dire la frase sugli undici affannati che danno calci a una cosa tonda – la prima volta, qualche secolo fa, poté suonare acuta.

 

 

Io mi lascio commuovere dalla commozione dei miei simili, anche quando rischia l’uscita da sé, salvo quando si commuova per trovarsi un nemico da aggredire. So immaginare di trovarmi in una Villa miseria, o al Tigre, o a Napoli, tutti luoghi che ho conosciuto, o più specialmente in una galera dove ieri dei giovani uomini e altri meno giovani sono usciti per la loro partitella all’ora d’aria con la faccia dura e cantando Oh mama mama mama. Per me, Maradona è passato come un tipo di fanciullo divino dell’Olimpo greco, sublime e briccone, capace di tiri magici e di tiri mancini, e di inconcepibili cadute infantili, un po’ come Hermes, un po’ come Mozart. Uno sfrontato irrisore della distanza sociale. Avevo scritto queste due o tre righe, e ho letto un ricordo di Del Piero che citava una frase di Maradona: “Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci”. Frase celebre, ho visto poi, io non la conoscevo, l’ho trovata meravigliosamente poetica. Il vestito bianco, il pallone infangato: era Pollock, serviva a dire dell’amore per il gioco del calcio, ma anche delle traversie della vita.

 

 

Ecco, di Maradona si era già compiuto tutto: divinizzazione, esaltazione, deprecazione, indulgenza, dannazione, resurrezione, sicché la sua morte ha solo suggellato il suo corto destino. Se fue para la eternidad, come nella retorica argentina, maestra di ultime parole e di necrologi. (Volveré, y seré millones, disse Evita sul letto di morte, e citava il cacique Túpac Katari). Detto questo, mai era così stridulamente venuto fuori il filisteismo della correttezza politica. La deplorazione compunta della vita macchiata, la repulsione del mancato droghiere per il drogato, del secondino presto appuntato. Del cicisbeo che si scansa, atterrito dal pallone infangato calciato da un ragazzino oltre il recinto. (Poi intinge la sua penna quotidiana nel calamaio riempito accuratamente di fango).

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