Piccola Posta

Non è vero che ogni conflitto armato è una guerra

Adriano Sofri

L'enciclica “Fratelli tutti” e il significato di certe parole

Vorrei commentare la breve e marginale parte dell’enciclica Fratelli tutti dedicata alla guerra. Ho prima una considerazione affine, perché avevo scritto sul discorso di Macron dedicato al “separatismo” islamista senza aver letto Papa Francesco. Dunque mi sono accorto solo dopo che l’enciclica ha un interlocutore dichiarato, e in molti punti quasi un coautore, nel Grande imam di al Azhar, la moschea-università del Cairo, Aḥmad Muḥammad Aḥmad al Tayyib, la più alta autorità dell’islam sunnita. Vi si leggono infatti brani in cui, cucendo, come fa l’intera enciclica, citazioni di discorsi e documenti, il Papa Francesco passa a un “noi” che coinvolge il Grande imam: “Il comandamento della pace è inscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. […] Come leader religiosi siamo chiamati a essere veri ‘dialoganti’, ad agire nella costruzione della pace non come intermediari, ma come autentici mediatori”. Non intendo evocare le controversie sulla figura e la dottrina di al Tayyb, è facile informarsene. Segnalo piuttosto la singolare coincidenza fra il ruolo preminente che questa personalità prende nell’enciclica e il drastico commento che nello stesso giorno il Centro di studi islamici di al Azhar ha pronunciato nei confronti del testo di Macron, dichiarato “razzista”, tale da “infiammare i sentimenti di due miliardi di musulmani” e da “sabotare” gli sforzi di promuovere la tolleranza. Macron avrebbe peccato dell’“amalgama” dal quale aveva assicurato di volersi guardare, facendo una “erronea confusione fra la realtà dei valori ai quali si richiamano le religioni, come l’avvicinamento fra gli esseri umani, e lo sfruttamento da parte di alcuni estremisti dei testi di queste religioni per attuare i loro nefasti propositi”. Una coincidenza che mette imprevedibilmente il Vaticano in una situazione imbarazzante.

 

 

La guerra. C’è con la guerra un problema formale che genera fraintendimenti sostanziali. Si adatta il nome di guerra, oltre che nei chiassosi titoli di giornale (guerra al Covid, guerra al fumo, alle mascherine…) a ogni conflitto fra e dentro gli Stati che ricorra alla violenza delle armi: guerra “classica” fra stati, più rara, guerra “proxy”, per delega, più frequente, e l’inesauribile gamma delle guerre cosiddette civili. E alle “guerre”, che infieriscono in buona parte del pianeta, si aggiunge l’astrazione de “la guerra”, corrispondente all’astrazione de “la pace” (Francesco, quello di Assisi, parlava delle paci, e provava a farle). Questa astrazione, sempre pronta a tirar fuori gli artigli e farsi concreta, è peraltro quella per la quale non costa niente, e a volte suona ovvio fino al losco, dirsi per la pace e contro la guerra. A ridosso di Hiroshima “la guerra” fu per un po’ per antonomasia la guerra atomica, e a lei si giurò il solenne “Mai più”. Vennero presto di nuovo “le guerre”, la guerra di Corea, d’Indocina…, e “la Guerra”, la Terza guerra mondiale, restò sull’orizzonte, tenuta a bada dalla Guerra fredda e poi dalla miniaturizzazione delle armi nucleari, che ne promette e vanta l’uso senza più implicare la fine del mondo. Il Papa Francesco ha coniato per la “proliferazione di guerre” la formula della “Terza guerra mondiale a pezzi” e la ripete nell’enciclica: ha ragione nel denunciare in (quasi) tutti i conflitti armati contemporanei il confronto interposto fra le potenze, come di nuovo fra armeni e azeri. E’ amaramente vero del resto che le guerre “a pezzi” sono state anche il surrogato e la dilazione della guerra mondiale, come in ogni gioco d’azzardo (la crisi dei missili a Cuba fu l’esempio insuperato). 

 

Ora, di nuovo, l’enciclica, in una parte che a me sembra marginale e sciatta, ripete il “Mai più la guerra!”, esorta al “dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite”, ribadisce l’abbandono della “guerra giusta”: “Non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’”. Citiamo il passaggio più significativo dell’enciclica: “…facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una ‘giustificazione’. Il catechismo della chiesa cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune ‘rigorose condizioni di legittimità morale’. Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi ‘preventivi’ o azioni belliche che difficilmente non trascinano ‘mali e disordini più gravi del male da eliminare’. La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti… Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato… Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come ‘danni collaterali’. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia… Guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace”.

 

 

L’enciclica non fa esempi. Ne faccio due, fra i più recenti, brucianti e pertinenti. Il primo è la “guerra contro lo Stato islamico”. Una coalizione militare di decine di stati, vidimata dalle Nazioni Unite, contro un’armata eretta a stato multinazionale, durata anni e vinta finalmente (provvisoriamente?) quanto al controllo del territorio. Si è trattato di “legittima difesa mediante la forza militare”, secondo la previsione del catechismo cattolico? Dunque non è stata una “guerra”, o è stata una “guerra necessaria”, se non giusta. Auspicata, implorata, dai cristiani e dai cattolici e dai loro pastori del vicino oriente. Ha “lasciato il mondo peggiore di come lo aveva trovato”? E’ stata, sia pure con quella durata e quello spiegamento di potenza militare, un’operazione di polizia internazionale? Lo si dica dunque: Giovanni Paolo II l’aveva a sua volta auspicato e motivato, e denunciato l’omissione di soccorso. Ma l’esempio è, nonostante il suo costo inconcepibile alle “vittime, le ferite, la carne…” – il mondo contro una banda armata – indebolito, se non invalidato, dalla riduzione dell’Isis a “terrorismo”, e della guerra all’Isis a guerra al terrorismo. Vediamo allora l’altro esempio, che riguarda direttamente il Papa Francesco. La più sanguinosa “guerra” contemporanea si è combattuta in Siria, dal 2011, per una durata superiore a quella delle consacrate guerre mondiali. Nell’estate 2012 il presidente Obama fece un solenne annuncio. “Siamo stati molto chiari con Assad: la linea rossa per noi è superata quando cominciamo a osservare armi chimiche che vengono spostate o impiegate”. L’avvertimento ultimativo fu ribadito più volte dopo di allora. Obama aveva molti pesi sulle spalle, compreso il Nobel per la pace che gli era stato assegnato nel 2009. Non era sicuro del Congresso. Aveva intenzione di tornare indietro dall’avventura irachena. Non aveva alleati affidabili fra i ribelli al regime di Damasco. La sua linea rossa non era interventista, al contrario. Dava ad Assad una amplissima libertà d’azione, bastava che non ricorresse a una risorsa così scandalosa e così condannata come le armi chimiche. Scommetteva su un Assad, e i suoi, feroci, spietati magari, ma non suicidi.

 

Esattamente un anno dopo, agosto 2013, arrivarono le armi chimiche e fecero strage di civili, molti bambini, a sud-est di Damasco. Qualcuno mise in dubbio l’origine dei missili caricati col gas nervino. Obama approntò, a malincuore, la risposta. Alla vigilia, annullò l’attacco. Ebbe bisogno di qualche appiglio. Glielo offrirono in molti, a cominciare dal Papa, che guidò una veglia di preghiera per la pace e caldeggiò la mediazione russa. Così fece Angela Merkel, così Emma Bonino, allora ministro degli Esteri. Si concordò con Putin la rimozione di tutto l’arsenale chimico del regime di Assad. “Sarebbero state eliminate e distrutte dalla Siria migliaia di tonnellate di armi chimiche, molte più di quanto sarebbe stato possibile fare con un’azione militare”. (Non avvenne. Le armi chimiche continuarono a essere usate dal regime siriano e anche da suoi contendenti). Quella decisione fu un vero spartiacque. Chi aveva contato sugli Stati Uniti se ne sentì tradito, chi li avversava li additò come una tigre di carta. Obama aveva comunque sbagliato. Non doveva fissare una scadenza che non avrebbe rispettato. Di lì a poco il vuoto lasciato da Obama fu colmato aggressivamente dalla Russia e dai suoi alleati sciiti sul campo, Iran in testa. Stati Uniti, Unione europea, Nato, non fecero mai niente per arginare il mattatoio siriano, salva la guerra all’Isis, rinviata fino all’estate del 2014, e condotta a lungo per terra soprattutto dai curdi. L’Europa fu la meta dell’esodo di milioni dalla Siria, arrestato a pagamento in Turchia (e in Libano e altrove) condizionando decisivamente i rapporti politici e militari dell’intero medio oriente. Quando Obama annunziò la sua linea rossa, si contavano attorno a 100 mila morti in Siria. Poi, dopo averne dichiarati 400 o 500 mila, si smise di contarli.

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