Il carcere di San Vittore, Milano

Le donne "Caine"

Adriano Sofri

Un documentario della regista Amalia De Simone racconta la vita delle donne carcerate. Un piccolo capolavoro da recuperare e trasmesso dal servizio pubblico

Nella notte fra sabato e domenica – da mezzanotte all’una, orario avanzato ma elegante – è stato trasmesso da Rai 3 un documentario sulle donne carcerate nelle prigioni di Salerno-Fuorni e di Pozzuoli. Titolo: Caine (femminile plurale di Caino, perché qualcuno non lo pronunci direttamente in inglese) autrice Amalia De Simone con la cantautrice Assia Fiorillo, e la collaborazione della giornalista Simona Petricciuolo.

 

E, va aggiunto, delle direzioni del carcere. Molto bello, rivelatore, sconvolgente e incoraggiante, anche per chi, come me, si illude di conoscere la materia. La prigione femminile si mostra a prima vista simile a quella maschile – “la galera è sempre galera”, le suppellettili, le umiliazioni, sono quelle – ed è tutta un’altra cosa. Continuo a trovare incredibile la disattenzione ostinata alla differenza fra donne e uomini come si manifesta nella criminalità.

 

La quota di donne carcerate, in Italia per esempio, oscilla attorno al 4 per cento. La metà del cielo ha un deficit del 46 per cento per toccare la parità. Forse solo nei grandi Consigli di amministrazione c’è una sproporzione paragonabile, e il confronto porterebbe lontano. Amalia De Simone è una videoreporter napoletana, 46 anni, che ha lavorato per una quantità di destinazioni, soprattutto per il Corriere.it, per la Rai e la Reuters, ha avuto una storia professionale avventurosa perché è una temeraria pescatrice nel torbido, e perché torbidi committenti e personaggi pescati l’hanno temerariamente querelata una quantità di volte.

 

Finché nel 2017 il presidente Mattarella non ha deciso motu proprio di farla cavaliere al merito della Repubblica italiana per “il suo coraggioso impegno di denuncia di attività criminali attraverso complesse indagini giornalistiche”. Fin qui le notizie minime su lei (blog: amaliadesimone.com) che un po’ sapevo, un po’ ho cercato dopo aver visto con emozione “Caine”.

 

Ufficialmente l’abbiamo guardato in 254 mila: gli altri milioni troveranno il modo di recuperare. Voglio citare solo la frase di una giovane detenuta, che mi ha colpito benché scorresse con una sua ovvietà, e mi dispiace di non mostrarvela con la faccia che la pronunciava. La giovane raccontava tutti i tentativi che aveva fatto per venire a capo della cosa, della vita, invano – Potevo fare questo, ma poi…, potevo fare quest’altro, ma a che sarebbe servito… – e in cima a quell’elenco diceva: “Mi potevo uccidere, ma che mm’accidev’a ffa’?” Che anche uccidersi rientrasse nel novero delle strade tentate sperando di risalire una china, e fosse scartato per inutilità, ecco un’idea notevole. Mi uccido, va bene, ma poi? L’ho detto, c’era dell’ottimismo in quella disperazione. A quel punto, l’unica era vivere.

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