(foto LaPresse)

I luoghi perduti della giustizia

Giuseppe Sottile

C’erano una volta le aule di tribunali e Corti d’Assise. Erano le cattedrali del diritto. Ma chi se le ricorda più? Ormai il destino dei grandi processi, come quello sulla Trattativa, si decide in tv. In primo e in secondo grado

Se la retorica avesse ancora un senso potremmo anche dire che le aule di giustizia sono come le chiese; e che un’aula della Corte d’Assise, per chi crede nello stato di diritto, potrebbe anche essere paragonata a una cattedrale, a una basilica, a una Notre Dame de Paris. Giudici togati e giudici popolari vi accedono con passo lieve e solenne, uno dietro l’altro, e si dispongono sull’emiciclo con la stessa liturgica cadenza con la quale chierici e sacerdoti fanno da corona al vescovo che celebra il suo pontificale. Ma a che servono ormai le aule di giustizia? La Corte d’Assise di Palermo, dove si giudicano in appello gli imputati della fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa Nostra, non odora di incenso ma di amuchina. Il presidente Angelo Pellino vigila, oltre che sul dibattimento, anche sul distanziamento sociale. Ma al di là dei rigori imposti dal coronavirus, ciò che succede in quell’aula non suscita né un interesse né una curiosità. Nel raggio di trecento metri non si vede un solo cronista; i banchi degli avvocati sono presidiati dai giovani di studio e gli imputati – che pure sono stati tutti condannati in primo grado a pene severissime – seguono le udienze a debita distanza: sono quasi tutti ottantenni, dal generale Mario Mori al generale Antonio Subranni, da Marcello Dell’Utri ad Antonino Cinà fino al terribile Leoluca Bagarella, cognato e luogotenente di Totò Riina, l’ultimo capo dei capi; sono quasi tutti rassegnati perché sanno che spesso non basta una vita per arrivare, con questa giustizia, a una sentenza definitiva; e sono oltremodo diffidenti perché sanno che la partita dei processi di mafia, da quasi dieci anni, non si gioca più nei palazzi di giustizia ma nei talk-show. E’ lì, nel sinedrio mediatico, che ormai si decidono condanne e assoluzioni; è lì che si elevano i monumenti ai magistrati coraggiosi ed è lì che si elaborano – e spesso si manipolano – le verità ad uso e consumo dei giudici popolari.

 

I pubblici ministeri queste cose le sanno. Ricordate il processo di primo grado? Eravamo nel 2012 e Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, si preparava già a solcare il palcoscenico della politica. Aveva calpestato, col piglio dell’inquisitore, tutti i palazzi del potere: aveva interrogato Silvio Berlusconi, aveva messo sotto accusa il senatore Marcello Dell’Utri, aveva dato la caccia a Nicola Mancino, aveva cercato tra le agende di Azelio Ciampi, aveva puntato gli occhi sul Quirinale di Giorgio Napolitano. E con la banalissima scusa di scavare nel doppiofondo della politica e dei servizi deviati, aveva messo a soqquadro baroni, cavalieri e dignitari della Repubblica. Fino al tavolo ovale attorno al quale, secondo il suo teorema, lo Stato sarebbe venuto a patti con i boss e avrebbe ceduto persino ai loro scellerati ricatti.


La Corte d’Assise di Palermo non odora di incenso ma di amuchina. Gli imputati seguono le udienze a debita distanza


 

Un ricamo straordinario quello imbastito nelle stanze della procura di Palermo da Antonio Ingroia. E, all’un tempo, un copione formidabile per ogni talk-show, in particolare per un conduttore d’assalto come Michele Santoro che sui poteri occulti e le trame oscure aveva costruito gran parte della sua carriera. Il procuratore aggiunto di Palermo diventò l’idolo della trasmissione e la Trattativa, che era ancora nella fase istruttoria, entrò a pieno titolo nel cartellone più sfavillante del circo mediatico. Portandosi dietro, manco a dirlo, tutti i personaggi e gli interpreti reclutati per stupire il pubblico del teatrino giudiziario. A cominciare da Massimo Ciancimino che, travestito da ventriloquo del padre – il boss Vito Ciancimino, che fu anche sindaco di Palermo – veniva mostrato in giro come una madonna pellegrina: diceva di custodire il papello delle richieste consegnato dai sanguinari corleonesi a don Vito perché le loro pretese arrivassero, tramite Mori, ai piani alti delle istituzioni; raccontava di avere incontrato personalmente Bernardo Provenzano, il boss latitante che faceva da spalla a Totò Riina; e diceva pure che nella sua casa di via Torrearsa custodiva casse di documenti, lasciati dal padre, che avrebbero fatto tremare il mondo.

 

Tutte fandonie, ovviamente. Perché Massimuccio, trasformato con un azzardo mai visto in una “icona dell’antimafia” era un pataccaro e nulla più. Ma che Ingroia ha utilizzato e spremuto per ubriacarsi di popolarità. Fino al punto, pensa tu, di candidarsi nel 2013 alla carica di primo ministro.

 

Le cose non andarono però per il verso giusto: il risultato elettorale fu un bagno di sangue e il magistrato palermitano, trasferito per incompatibilità ad Aosta, fu costretto a lasciare la toga e a intraprendere il mestiere di avvocato. Ma la Trattativa, con tutto il fragore mediatico che l’aveva elevata al cielo, riuscì a sopravvivere. Passata al vaglio di Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari, è approdata nell’aula della Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto. Ed è rimasta lì per cinque anni, al centro di un dibattimento che ha visto mirabilie di ogni tipo e qualità: persino un conflitto di attribuzioni con Napolitano, intercettato mentre parlava dal Quirinale con il senatore Mancino, accusato di falsa testimonianza.


Che cosa succederebbe se la Corte d’appello mandasse assolti anche gli altri imputati, da Mori a Subranni, da Dell’Utri a Cinà?


 

 

Cinque anni di colpi di scena. Cinque anni indimenticabili. Durante i quali si scoprì persino che Massimo Ciancimino, da icona dell’antimafia, ne aveva combinato di tutti i colori: aveva falsificato le carte del padre e, come se non bastasse, teneva nascosti nel giardino di casa, in via Torrearsa, ventitré candelotti di tritolo. Ma Nino di Matteo, il pm che aveva raccolto l’eredità di Ingroia, nonostante i numerosi incidenti di percorso, non ha mollato la presa. Anzi. Ha cominciato a girare in lungo e in largo per l’Italia, ha raccolto oltre cento cittadinanze onorarie, ha scritto libri, non si è negato a nessuna intervista e a nessun talk-show, ha polarizzato su di sé le minacce tenebrose di Totò Riina, ha raccolto la militanza delle associazioni antimafia ed è diventato il magistrato più coraggioso e più scortato di Italia. Un eroe.

 

Non tutto, sia chiaro, è avvenuto per sua volontà. Ma nei cinque anni di indomita presenza nell’aula bunker su Nino Di Matteo è piovuto un diluvio di consensi, di applausi, di solidarietà. Che ha lasciato scoperta una domanda: quale giudice popolare della Corte d’Assise avrebbe mai trovato il coraggio di considerare la Trattativa una “boiata pazzesca”, così come aveva fatto Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto Penale? Quale giudice popolare avrebbe mai gettato alle ortiche gli sforzi fatti, anche a rischio della propria vita, da un pubblico ministero che per cinque anni ha martellato l’opinione pubblica al solo scopo di affermare la sua verità; che ha girato per le scuole e per le aule consiliari per trasmettere agli uomini di buona volontà la forza della propria testimonianza e del proprio coraggio?

 

La sentenza pronunciata da Alfredo Montalto al termine del primo grado di giudizio e le pesantissime condanne inflitte agli imputati non solo hanno premiato l’impegno di Di Matteo e degli altri tre pubblici ministeri – Teresi, Tartaglia e Del Bene – che lo avevano affiancato in aula. Hanno anche affermato un principio destinato a introdurre nell’ordinamento giudiziario nuovi squilibri e nuove distorsioni: il principio secondo il quale il trasferimento di un processo dalle aule di giustizia alla giostra mediatica contribuisce non poco all’affermazione delle tesi formulate dall’accusa.


Cinque anni di colpi di scena. Cinque anni indimenticabili. L’epopea di Nino Di Matteo, il pm che ha raccolto l’eredità di Ingroia


 

La controprova sta nel fatto che Di Matteo non sembra avere alcuna intenzione di abbandonare gli studios della tv. Da sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia è andato a parlare delle stragi con Andrea Purgatori su La7 e ha scatenato l’ira del suo capo, Federico Cafiero De Raho. Poi, da membro togato del Csm, è andato a “Non è l’arena” e con Massimo Giletti ha scatenato una tempesta di sospetti sul ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e sulla gestione del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziario. E’ difficile stabilire perché lo abbia fatto e soprattutto perché si sia esposto tanto. Il ministro gli aveva promesso, subito dopo il suo insediamento, nel giugno del 2018, di nominarlo al vertice delle carceri ma il giorno dopo si rimangiò tutto e non se ne fece nulla. Dopo due anni, Di Matteo si è tolto il pietrone dalla scarpa. Ha chiesto pubblicamente al ministro per quale ragione fosse venuto meno alla parola data e ha lasciato chiaramente intendere che dietro il ripensamento ci sarebbe stata una pressione indebita: forse dai mafiosi, sempre alla ricerca di scrollarsi i rigori del carcere duro; forse da un innominabile uomo delle istituzioni magari irritato con il magistrato palermitano per chissà quale gogna o chissà quale sputtanamento.

 

Ma l’attacco frontale a Bonafede è stata anche l’occasione, per Di Matteo, di battere sul chiodo delle scarcerazioni di alcuni boss, per lo più gravemente ammalati, spediti agli arresti domiciliari anziché nelle strutture ospedaliere costruite e ben funzionanti all’interno delle carceri. Una battaglia legittima, per carità. Ma che è servita al pm della Trattativa anche per sancire il principio che, pur gravitando nell’orbita del partito manettaro dei grillini, lui resta comunque il più puro dei puri e duri. Era già un eroe incontestato e incontestabile. Era il magistrato che aveva scavato nelle caverne più nascoste e più limacciose del potere. Era l’uomo che aveva scoperchiato la più infame delle trattative. L’ultima tornata televisiva non poteva che collocarlo su un piedistallo ancora più solido, ancora più alto, ancora più blindato e inespugnabile. Potrà questo dettaglio non influire sulla sentenza d’appello che il presidente Angelo Pellino spera di leggere entro la fine dell’anno? Potrà lasciare indifferenti i giudici di appello?

 

L’impalcatura giudiziaria della Trattativa ha subìto già un primo, durissimo colpo: Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano che Morosini aveva rinviato a giudizio con tutta la compagnia dei traccheggiatori, si è staccato dal gruppo: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto in primo e secondo grado. La sentenza che lo ha ripulito di ogni accusa e di ogni nefandezza, smonta tutte le tesi Ingroia ed è una sentenza definitiva: in base a una legge del 2017 se l’assoluzione di primo grado viene confermata in appello non può essere impugnata in Cassazione. Bene. Che cosa succederebbe se la Corte d’appello presieduta da Angelo Pellino ricalcasse le motivazioni dell’altra Corte d’appello, quella di Mannino, e mandasse assolti anche gli imputati del troncone ordinario, da Mori a Subranni, da Dell’Utri a Cinà? Che ne sarebbe dei nostri eroi?


In tv Di Matteo ha scatenato una tempesta di sospetti sul ministro della Giustizia Bonafede e sulla gestione del Dap 


Sarebbe un disastro. Da qui la necessità di rafforzare, con l’aiuto del circo mediatico, le convinzioni dei giudici popolari. E di convincerli, anche e soprattutto, attraverso la televisione, che non c’è altra verità se non quella sostenuta dall’accusa e dalle forze del bene. Con la conseguenza di marginalizzare ancora di più il dibattimento. Del resto, a che serve l’aula, dove il giudice Pellino continua a convocare pentiti e pentiticchi nella speranza di cavare un ragno dal buco? La sorte degli imputati non dipenderà mai dalle tesi brillantemente esposte da un avvocato difensore o dalle sconvolgenti rivelazioni di un collaboratore di giustizia. Dipenderà quasi esclusivamente dalle certezze che albergheranno, al momento della sentenza, nella mente dei sei giudici popolari schierati al fianco di Pellino.

 

Durante la pandemia il Papa – che pure è ispirato dallo Spirito Santo ed è teologicamente vicario di Cristo – ha chiuso chiese, cappelle, parrocchie e cattedrali. Ha sbarrato persino la basilica di San Pietro. Perché non chiudere anche le aule dei Tribunali, delle Corti d’Assise, delle Corti d’Appello e tutti i luoghi che possano comunque appannare il potere dei pubblici ministeri? Dal sospetto alla galera il passo sarebbe breve, brevissimo. La società sarebbe finalmente purificata. Sanificata, si direbbe oggi, e liberata anche dal virus del male. Non ci sarebbero più né boss né picciotti, né ‘ndrangheta né camorra, né reprobi né malacarne. Te Deum laudamus.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.