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Il destino delle yazide conferma che il dolore trova sempre nuove vie per infierire

Adriano Sofri

Tra queste storie di madri, di figli e di leggi brutali il rispetto per le donne, per il corpo delle donne, dev’essere senza riserve

Nel nome del padre, del figlio e dello spirito. Alcuni nemici del cristianesimo trinitario l’hanno accusato di politeismo per questo. Fra quelle tre persone manca la madre, il nome della madre. Una legge in Iraq (non solo là) decreta che il nato da un padre musulmano, o da un padre sconosciuto, sia registrato come musulmano. La madre non c’entra, è solo il tramite. Ora le giovani madri yazide liberate dalla caduta territoriale dell’Isis fanno conti tragici con questa legge, e con la legge della loro propria fede. Per la quale nessuno può diventare yazida per sua volontà, nessuno può convertirsi: è yazida solo chi nasce da padre yazida.

 

Donne yazide di ogni età, giovani e addirittura bambine la maggioranza, furono rapite a migliaia (quasi 3 mila mancano ancora) dai farabutti dell’Isis nell’estate del 2014, quando dilagarono a Mosul e nel Sinjar e in parte del Kurdistan iracheno. In cinque anni, bambine e giovani donne sono passate di mano in mano, schiave sessuali e domestiche, e hanno avuto dei figli. All’inizio, anni fa, le poche ragazze che riuscivano a liberarsi o venivano riscattate, dovevano affrontare il rischio del ripudio e della vergogna delle loro famiglie. Ci fu bisogno di molta tenacia e delicatezza per vincere, e non sempre, quel rigetto, da parte di educatori, di donne yazide soprattutto, e anche di combattuti pronunciamenti delle autorità religiose e civili. Alcune ragazze cercarono riparo all’estero, altre si erano suicidate quando ancora erano in balìa dei loro padroni jihadisti. Per quelle che tornavano incinte – una ne incontrammo che aveva nove anni – e maledicevano il seme che portavano dentro e rischiavano la propria stessa vita, l’aiuto dovette essere prudente e discreto. (E’ appena successo alle Nazioni Unite che la condanna dello stupro come arma di guerra sia passata solo alla condizione, americana!, di escludere un accenno al sostegno alle donne incinte per violenza).

 

Oggi centinaia di donne yazide uscite dalla cattività siriana devono lasciare i loro piccoli a qualche sventurato orfanotrofio o a qualche avventurosa adozione per paura di non essere riaccolte dalla propria famiglia e dalla propria gente. Le cronache raccontano storie terribili. Madri che hanno con sé figli più grandi, rapiti con loro, e più piccoli, nati dopo, e condannate a scegliere fra i primi e i secondi. E d’altra parte sorelline e fratellini che si vedono separati e non sanno spiegarsi perché e non possono che piangere. E all’opposto, madri che non sopportano di tenere con sé figli non voluti e legati alla ferocia perpetrata su loro e sui loro cari: migliaia di uomini furono infatti trucidati quando si rapirono le donne. Il Consiglio spirituale yazida si era pronunciato solennemente, mercoledì scorso, nella cittadella sacra di Lalish: poiché le donne non sono colpevoli di niente di ciò che è avvenuto loro per la violenza dei rapitori, possono tornare ed essere accolte con i loro bambini figli di padri yazidi, e anche con gli altri. Il pronunciamento diceva che i “figli dell’Isis” dovessero essere accolti perché sono esseri umani, e gli yazidi rispettano ogni essere umano – pur senza mai appartenere al popolo yazida. Così letta, la decisione era stata salutata da qualcuno con sollievo, benché si immagini che cosa vorrebbe dire per un bambino crescere fra altri bambini che lo additeranno diverso e, chi volesse ricordarlo, figlio dei persecutori brutali del loro popolo.

 

Sabato è venuta la malaugurata “precisazione”, in realtà una correzione imposta dalla ribellione di fazioni oltranziste yazide: non c’è posto per i “figli dell’Isis”. Nadia Murad, la giovane superstite alla violenza e premio Nobel, ha chiesto che sia la comunità internazionale a farsi carico del problema. Si è proposto, e in qualche caso è avvenuto, che le giovani madri siano accolte in Europa o in Canada, in luoghi in cui tentare una vita senza pregiudizio, e in cui la legge consenta ai piccoli di prendere il nome materno. Luoghi in cui si possa dire: In nome della madre. (Ma anche qui succede a volte che non si accettino “figli dell’Isis”). Fra altri gruppi, musulmani sciiti, o turcomanni, il rifiuto dei figli “dell’Isis”, più rari, è peraltro assoluto, e le donne sono castigate e recluse per la vergogna che hanno arrecato alle famiglie. Il pregiudizio patriarcale degli yazidi è penoso, e d’altra parte non dobbiamo andare molto indietro per rintracciarlo tal quale anche da noi. E non si può, come con la sharia o con le mutilazioni genitali o con l’omofobia e qualunque altra tradizione oppressiva di una parte dell’umanità, invocare la relatività delle culture.

 

Ma voglio ricordare anche che la gente yazida, quel mezzo milione sì e no di persone che hanno contato decine di persecuzioni genocide nella loro antichissima storia, è tutta, uomini e donne, di una mite cordialità memorabile per chi l’abbia sperimentata. In questi giorni di nuovo si è celebrato a Lalish il pellegrinaggio annuale. In quel luogo di memorie sacre lo straniero, ogni straniero, viene accolto come una benedizione affettuosa, e chi l’abbia provata non può dimenticarla. In questa storia, in cui il dolore conferma di sapersi trovare sempre nuove vie per infierire, il rispetto per le donne, per il corpo delle donne, dev’essere senza riserve. Ma una volta che quei figli siano venuti al mondo, i più disgraziati, quelli destinati a invidiare chi possa dirsi figlio di nessuno, sono loro a ispirare un augurio speciale. Forse uno di loro un giorno, ignaro di dov’è venuto, arriverà da turista ai cortili alla sorgente e ai templi di Lalish e sarà accolto dai fedeli in festa con il calore che si riserva all’ospite straniero.

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