In Iraq e Siria a combattere lo Stato islamico ci sono anche combattenti curde. Qui in una foto del 2014 a Kirkuk (LaPresse)

Dal metoo al jihad. Ragioni di nuove rivoluzioni

Paola Peduzzi

C'è un mondo in guerra in cui la rabbia femminile non ottiene giustizia ma dove la voglia di redenzione è potente 

Il mercato delle schiave apriva di sera. Gli uomini si registravano, al piano di sotto, facevano segnare il proprio nome: all’uscita, di fianco ci sarebbe stato scritto il nome di una donna, di una ragazza, di una schiava. Gli uomini salivano le scale e, appena comparivano sulla porta della stanza principale del mercato, erano accolti dagli urli. Sembrava che fosse scoppiata una bomba. Le ragazze gridavano, si lamentavano come se fossero ferite, si buttavano in terra, vomitavano, imploravano: ti prego, non scegliere me. Il mondo capovolto: una ragazza che spera di essere poco attraente, brutta, malata, deforme anche, basta che non mi guardi, basta che non ti piaccio, basta che non scegli me. Ma gli uomini non si fermavano, gli urli erano un afrodisiaco, chiedevano: quanti anni hai?, poi controllavano i capelli, la bocca, domandavano alla guardia: sono vergini vero?, e la guardia rispondeva come un commesso nel negozio: certo, solo merce di alta qualità. E gli uomini toccavano i seni, le gambe, le schiene, le natiche, le ragazze come bestie, e poi sceglievano, decisioni inappellabili.

  

Nadia Murad ha raccontato nel libro “L’ultima ragazza” la sua vita da schiava dello Stato islamico, lei yazida catturata, picchiata, seviziata e stuprata dopo la razzia jihadista nella terra del Sinjar, in Iraq, lei come altre settemila ragazze yazide, lei che dopo qualche mese è riuscita a scappare, lei che non avrà pace e continuerà a raccontare e denunciare fino a che tutte non saranno libere di raccontare, denunciare, e ricominciare a vivere. La Murad ha vinto il premio Nobel per la Pace assieme al medico congolese, Denis Mukwege, che ha provato a rimettere al mondo migliaia di donne violentate, lo chiamano “l’uomo che aggiusta le donne”. E’ la prima volta che lo stupro viene riconosciuto come un crimine contro l’umanità, un’arma di guerra, non la conseguenza di una guerra, non un effetto collaterale, ma un metodo premeditato per combattere e piegare popoli interi, per far implorare le donne: non scegliere me. Nel racconto della Murad ci sono tanti uomini: i padri e i fratelli uccisi con un colpo alla testa sbrigativo, i carnefici, tantissimi, gretti, violenti, disumani. Il primo uomo che ha scelto Nadia al mercato era enorme, puzzava di uovo marcio, e mentre la trascinava con sé lei guardava per terra, ha notato dei sandali da uomo su caviglie e gambe sottili, ha alzato lo sguardo, ha visto un signore mingherlino, gli ha detto disperata: prendimi tu. Lui l’ha presa, era uno importante a Mosul, aveva diritto di prelazione: l’ha portata a casa, ed era piccolo sì, ma feroce.

  

Nadia Murad. Foto LaPresse  

   

Quell’efferatezza maschile, oscena e imperdonabile, annichilisce la Murad, spegne la luce nei suoi occhi di ventenne, cancella i ricordi e i sogni, uno stupro alla volta, una sigaretta spenta sulla coscia alla volta. Ma è quando sono le donne a fare l’ingresso in questa storia di violenza inaudita che scoppia la rabbia, e Nadia barcolla. C’è un momento esatto in cui la Murad realizza che le donne sono coinvolte, che le donne sono complici: è quando il suo carnefice interrompe la violenza perché lo sta chiamando sua moglie. “Ho pensato alle famiglie che vivevano nelle strade attorno a me – scrive la Murad – Sono a tavola? Stanno mettendo i bambini a letto? Non è possibile che non sappiano, che non sentano quel che sta accadendo qui”. L’indifferenza diventa complicità, per paura soprattutto, ma quando sei schiava la paura degli altri non può essere un alibi, non è mai paragonabile alla tua.

  


    La complicità delle donne con lo Stato islamico fa tremare Nadia Murad, yazida stuprata dall’Isis ora premio Nobel. Non riesce a capacitarsi: come fate a non sapere, come fate a non intervenire? Il silenzio che più pesa è il silenzio di un’altra donna: se non mi capisce lei, chi lo farà? 


  

Nella casa in cui finisce la Murad, c’è una donna, la madre della guardia che controlla ogni movimento della schiava. Ha più o meno l’età della mamma della Murad, “il suo corpo è morbido come quello di mia madre”. Lo sa cosa mi è successo la notte passata?, chiede la Murad. Lo sa che sono stata picchiata e abusata e che non sono stata violentata soltanto perché ho le mestruazioni? Lo sa quanto mi manca mia madre, la mia famiglia, la mia terra, la mia vita di ragazza? “In Iraq ogni donna ha dovuto combattere per qualche cosa – scrive la Murad – I seggi in Parlamento, i nostri diritti, qualche occasione di lavoro in università: ogni conquista è stata il risultato di una dura battaglia. Gli uomini volevano starsene tranquilli al potere, e soltanto delle donne forti potevano strapparglielo. Persino l’insistenza con cui mia sorella voleva guidare il trattore è stata una sfida per gli uomini della nostra famiglia”. Ma quando è arrivato lo Stato islamico, molte donne sono restate con gli jihadisti, “hanno scelto di vivere con loro e di guardare” lo sterminio di altre donne. “Ho sentito storie di donne molto più crudeli degli uomini – ricorda la Murad – Picchiano e fanno morire di fame le schiave dei loro mariti, perché sono gelose o rabbiose o soltanto perché noi schiave siamo un obiettivo facile. O forse queste donne si credono delle rivoluzionarie – delle femministe addirittura – e si sono convinte, come molti altri nella storia, che la violenza per un fine buono è accettabile. Ma non riesco a comprendere come possano stare a guardare mentre migliaia di yazide vengono tenute come schiave del sesso nelle loro case e violentate fino a che il loro corpo non si spezza”.

    

La complicità delle donne con lo Stato islamico fa infuriare e tremare la Murad, che si interroga più volte, non riesce a capacitarsi del silenzio attorno a sé: come fate a non sapere, come fate a non intervenire? Il silenzio che più pesa è il silenzio di un’altra donna, ci sono dei momenti, delle situazioni, in cui chiamarsi “sorelle” ha un significato potente e salvifico, siamo insieme e siamo più forti, mi basta il tuo sguardo. Anche la Murad dice che dalla donna della casa della sua prigionia non si aspettava atti di coraggio, si muore ammazzati in un attimo da quelle parti, le sarebbe bastato un “mi dispiace, so cosa stai passando e ti sono vicina”, ma il silenzio, l’indifferenza, no, quelli sono ferite di dolore e di rabbia: se non mi capisce lei, chi potrà mai farlo?

     

Nel nostro comodo, liberale occidente, abbiamo provato inquietudine quando abbiamo sentito che molte ragazze sono partite dal Regno Unito, dalla Francia, dal Belgio per unirsi allo Stato islamico. Spinte dal risentimento, dall’inadeguatezza o da una visione “Bonnie and Clyde” del proprio futuro. Il film francese “Le ciel attendra”, le cui riprese sono iniziate all’indomani dell’attentato al Bataclan, a Parigi, racconta la storia di due ragazze che incontrano lo Stato islamico come si incontra l’amore – per caso – e si abbandonano a una promessa di felicità in cui non vedono ombre, o pensano di poterle dissipare con la forza della loro luce. C’è molto romanticismo, in questa rappresentazione, e un’alta dose di manipolazione. Ma non c’è una risposta alla domanda della Murad: ti chiamo sorella, non puoi non vedere cosa accade attorno a te, non puoi essere complice di chi ci annienta. Un centro studi inglese ha provato a dare una spiegazione, senza accontentarsi di quella più immediata della manipolazione. In questo documento si legge che spesso c’è una razionalità chiara che spinge le donne a unirsi a un gruppo jihadista che fa della sottomissione femminile un punto di orgoglio e dello stupro un’arma di conquista, e spesso questa razionalità è alimentata dalla rabbia. Oltre all’ingenuità, c’è il rifiuto del femminismo occidentale – ipocrita, perché finge di liberare le donne senza farlo; perverso, perché le donne credono di essere libere e pretendono di imporre un modello di libertà fasullo e fallace – e c’è la possibilità di far parte di qualcosa di nuovo, eccitante e trasgressivo, una rivoluzione che ha anche il volto di donna. Spesso è arrivato il pentimento, ma prima c’è la lucidità rabbiosa e disarmante che aveva Merry, la figlia dello Svedese nella “Pastorale americana” di Philip Roth: lo Svedese riconosce nelle motivazioni della figlia, che ha piazzato una bomba in un ufficio postale uccidendo una persona in nome della sua fede comunista, “il cervello veloce, preciso e affilato, la mente logica che ha da quando era ragazzina”. Questa consapevolezza fa crollare il padre, “aprì lo Svedese a un dolore che prima non aveva mai immaginato. L’intelligenza era intatta, eppure lei era pazza”. Merry sbalza lo Svedese “dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”. L’innata rabbia cieca degli uomini e delle donne. Il padre teme per la vita della figlia che è finita a vivere per strada, ti succederà qualcosa qui, lo vedi che non sei sicura?, torna a casa. Perde la pazienza, anche se non vorrebbe, di fronte allo squallore in cui Merry ha scelto di vivere, rifiutando la sua offerta di protezione, di armonia, di perfezione. E la figlia risponde sempre: “Non mi faranno del male. Mi vogliono bene”. Il mondo perfetto dello Svedese si capovolge, così come lo stupro in guerra capovolge il senso di una donna per la propria bellezza e per la propria sensualità, così come il risentimento capovolge la vita di ragazzine che rifiutano il paradigma occidentale. L’innata rabbia cieca.

    

In questo pezzo di mondo tormentato dalla guerra, dal jihad, dalla prevaricazione, la rabbia non ottiene mai giustizia. Le vedove dello Stato islamiche non sanno più come pentirsi, sono rimaste sole a difendere un progetto di cui sono state comparse spesso feroci: quando c’è stato da scappare, sono partiti gli uomini e le schiave, le prigioniere, perché una donna non vale mai nulla se non quando è bottino di guerra. Nessuno le vuole, queste vedove, e nessuno vuole i loro figli. In Iraq vengono spesso condannate a morte, perché sono collaborazioniste, complici, hanno sostenuto lo Stato islamico. In quell’Iraq dove Tara Fares, una modella che spesso pubblicava foto con la bandiera irachena, testimonial di un paese che vuole ricominciare a vivere, è stata uccisa nella sua auto a fine settembre. Un giornalista della tv di stato al Iraqiya aveva twittato: è stata uccisa una puttana. Poi il tweet è stato cancellato, l’emittente si è scusata, ma ci sono stati altri omicidi e molti dicono che la mentalità imposta dallo Stato islamico ha attecchito, non scompare assieme ai miliziani in fuga. La donna libera è una puttana.

    

In Siria le vedove dell’Isis sono rinchiuse in campi generalmente gestiti dai curdi che però non hanno un riconoscimento internazionale: non le vuole nessuno. Ben Hubbard del New York Times è andato in uno di questi centri desolati, ha parlato con una ragazza tedesca che si è unita allo Stato islamico assieme al marito, anche lui tedesco: “E’ vero che abbiamo fatto degli errori, ma chi non li fa?”, dice. Una ragazza francese, arrivata da sola e ora con tre figli, dice che è stata una scelta folle, la sua, un errore, ma aggiunge: “Non meritiamo, com’è che la chiamate voi, una redenzione?”. Una donna di quarantaquattro anni è arrivata dall’Egitto, affascinata dallo Stato islamico: ripete come le altre che nulla è stato come se lo aspettava, e aggiunge: “Abbiamo fatto un errore, ma quanto a lungo dovremo pagare per questo errore?”. I bambini corrono intorno, molti sono ammalati, non sanno cosa vuol dire andare a scuola, vari stati stanno cercando di rimpatriarli, ma la prima condizione è che le madri diano il consenso: devono separarsi da loro, lasciarli partire. “Ci hanno detto di abbandonare lo Stato islamico e lo abbiamo fatto – dice una ragazza – ma per tutti restiamo le donne dello Stato islamico”.

  


   Le ragazzine occidentali che si sono unite all’Isis ci aprono “a un dolore inimmaginabile” come quello che dà Merry a suo padre, lo Svedese, nella Pastorale americana di Philp Roth, proiettandolo “nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca” 


  

La rabbia è senza giustizia, ma la voglia di redenzione è potente. Nadia Murad ha trovato un fidanzato, vuole sposarsi, in una foto che ha pubblicato assieme a lui ha un raro sorriso, e una luce negli occhi che non c’era mai stata. Bisogna tornare a vivere, la salvezza è la mano di un uomo buono (non vogliamo fare a meno degli uomini, non è questa la nostra battaglia), una carezza finalmente, la salvezza è l’abbraccio di un’altra donna, di una amica, di una sorella. Un posto sicuro, un centro per le donne costruito a Raqqa, in Siria, dove c’era un mercato di schiave dello Stato islamico: ho visto la gioia, ha detto un giornalista che ha visitato il centro, una gioia contagiosa, la musica, i balli, ragazze insieme con le loro ferite e la voglia di ricominciare a vivere e di essere forti. Non siamo la violenza che abbiamo subìto, non saranno gli stupri, la desolazione, la rabbia a definire il nostro futuro. Oltre l’indifferenza, oltre l’insicurezza, oltre il terrore di non trovare più un posto in cui vivere senza paura se non lontano da casa, c’è la voglia di redenzione, c’è quell’istante incantevole in cui ogni cosa torna di nuovo possibile. L’istante in cui riprende vita la forza delle donne.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi