Il carcere di San Vittore (foto LaPresse)

Il giudice che ha visto per la prima volta come si vive in carcere

Adriano Sofri

Cadere dalle nuvole sulla nuda terra, dopo 17 anni di servizio

C’è un articolo, sul Giornale di ieri, 19 febbraio, di cui non so se provare un tetro scandalo o una specie di felicità. Non per chi l’ha scritto, Cristina Bassi e Luca Fazzo, cui sono invece grato, ma per quello che dice il loro intervistato, Giuseppe Gennari, un giudice per le indagini preliminari, che svolge questo compito da 17 anni e in 17 anni ha mandato in galera una congrua quantità di umani, colpevoli e incolpevoli, com’è inevitabile. La notizia è questa: che dopo 17 anni il magistrato ha “per la prima volta” messo piede – e occhi e tutti i suoi sensi – dentro il carcere. Ed essendo umano ne è stato sconvolto. Descrive quei “buchi maleodoranti”. Dice della loro iniquità, della pena tanto più dura per i più disgraziati, “un marocchino catturato alla stazione”. Dice della inutilità, che “usciranno come prima”, o peggio. Dice: “Bisognerebbe che tutti i miei colleghi vedessero quello che ho visto io”. Bisognerebbe, infatti. Il Giornale ha intitolato così: “Il giudice che scopre il carcere: ‘condanniamo senza sapere cosa sia’.” Da una vita penso che la formazione dei magistrati dovrebbe prevedere l’obbligo di trascorrere anonimamente in un carcere almeno un giorno e soprattutto una notte. Il giudice intervistato ha comunque avuto il coraggio, se vogliamo chiamarlo così, di dire di sé, di cadere dalle nuvole sulla nuda terra. Di praticare finalmente una personale separazione delle carriere, fra quella di sé giudice e quella di sé uomo.

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