Padre Paolo Dall'Oglio

Il mistero di padre Dall'Oglio a cinque anni dalla sua scomparsa

Adriano Sofri

Un’inchiesta per uno speciale del Tg1 dirada molte delle ombre che si sono addensate sul sequestro e i suoi autori

Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso in Siria, a Raqqa, cinque anni fa, il 29 luglio. “Abuna” Paolo, nato a Roma nel 1954, è, era, un gesuita rifondatore del monastero di Deir Mar Musa, uomo del deserto e delle piazze della Siria aspiranti alla libertà, della condivisione religiosa e della nonviolenza. Più volte espulso dalla Siria, esule una volta nel Kurdistan iracheno di Suleymanya, non credeva che ci fosse autorità o potere, anche i più sanguinari e invasati, presso cui non si dovesse intercedere in nome della pace e dell’amore per il prossimo.

 

Il mistero sul suo destino è diventato leggendario, fin troppo. L’inchiesta per uno speciale del Tg1 che va in onda stasera alle 23.30, per 55 minuti, dirada molte delle ombre che si sono addensate sul sequestro di Dall’Oglio e i suoi autori. L’hanno appena realizzata Amedeo Ricucci e i suoi collaboratori, soprattutto sul campo di macerie di Raqqa, ascoltando i testimoni più preziosi di quei giorni, e concludendo, com’è inevitabile, che a sequestrare padre Paolo e ad assassinarlo sono stati uomini dell’Isis, in quel luglio di cinque anni fa da poco insediati nella città di cui avrebbero fatto la propria capitale siriana, dopo aver prevalso sulle bande jihadiste rivali.

 

Fu padre Paolo a recarsi nella loro tana, nell’ex governatorato, stato maggiore e insieme luogo di transito delle loro vittime. Padre Paolo sapeva di correre un rischio mortale, l’aveva fatto in passato e sentiva di doverlo tentare ancora. Ricucci arriva a indicare il nome dell’“emiro” che probabilmente decise la morte di padre Paolo – vivo, protetto sulla sponda opposta dell’Eufrate da una tribù potente e dall’inerzia di altri – e i luoghi in cui, con altre migliaia, può essere stato gettato via, nelle fosse comuni, nelle acque del gran fiume, in un canyon famigerato nel deserto. L’inchiesta di Ricucci solleva altri problemi, oltre l’interrogativo sulla vita e la morte di Dall’Oglio.

 

La questione: “Se l’era cercata”. Sempre, dice Ricucci, quando le cose vanno male, chi perde “se l’è cercata”. In un certo senso è vero, se l’è cercata: ma non per insipienza, per sfida, per ingenuità, e tantomeno mettendo a rischio, con la propria, l’incolumità altrui, ché anzi per soccorrere altri è stato mosso e agli altri più vicini chiedendo solo di dare l’allarme se non fosse tornato “dopo tre giorni”. (Lo diedero prima, i suoi). Tre giorni, sono una citazione inevitabile di un altro che la sua morte in croce se l’era cercata. E d’altra parte le migliaia, decine, centinaia di migliaia che la Siria ha seppellito nel mucchio, loro non se l’erano cercata.

 

L’altro problema, che completa il primo, riguarda il tempo. Nell’estate di cinque anni fa, luglio 2013, la cosiddetta (perché è un eufemismo) guerra siriana aveva due anni, e a un uomo come Dall’Oglio sembrava inaccettabile non mettere in causa tutto se stesso per affrontarla. Sono passati più di sette anni di quella cosiddetta guerra, e tanti più ammazzati mutilati cacciati violati e umiliati, in proporzione geometrica, e il mondo si è guardato bene dal cercarsela, una propria parte, salvo prendersela per dare mano alla strage. Non ci sono nemmeno i fondi per cominciare a riconoscere i resti degli assassinati, a Raqqa e altrove. Arriveranno, vedrete. Basta aspettare. Seppero aspettare le ossa dei desaparecidos argentini, degli sterminati cambogiani, dei trucidati di Srebrenica, e piano piano le tecniche del dna si sono perfezionate. Questione di anni, e forse si troveranno personale e macchinari che distinguano quelle di Abuna Paolo dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte.

Di più su questi argomenti: