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Storie dal paese reale

Adriano Sofri

Racconti dall'ambulanza della Pubblica Assistenza di Tavarnuzze 

Ho un vantaggio: frequento il paese reale, sia pure per poche ore al giorno. Di mattina viene a prendermi un’ambulanza della Pubblica Assistenza di Tavarnuzze (Impruneta, Firenze) e mi accompagna alla fisioterapia. Alla guida, che varia, sono dei volontari, donne e uomini, di tutte le età. Quello di oggi, per esempio, si chiama Marco, ha 68 anni, è andato in pensione dopo aver tenuto per quarant’anni una macelleria in piazza Puccini a Firenze: due settimane di ferie all’anno, tutti i giorni al lavoro dalle cinque di mattina fino a sera. Anche sua moglie è in pensione dopo aver lavorato nella sanità, da ultimo nelle attrezzature per le disabilità. Hanno tre figli grandi, laureati tutti tre, e sono nonni. A un certo punto, dice Marco, mi sono detto che era ora di godersi un po’ la vita. La vita che finalmente si gode comprende due giorni alla settimana impegnati nel servizio volontario alle ambulanze, un giorno alla Misericordia di piazza del Duomo (fondazione: anno 1244) dov’è volontario da quando aveva 18 anni, e uno alla Pubblica Assistenza di Tavarnuzze, dove da qualche anno abita. Orario: dalle 7 alle 14, con itinerari di volta in volta locali o anche molto distanti, in altre regioni. Anhe i miei fisioterapisti, donne e uomini, sono persone notevoli: anche quando, spero, non avrò più bisogno delle loro competenze terapeutiche sentirò la mancanza della conversazione. Luca, per esempio, questa mattina ha pronunciato di passaggio la frase: “I pistoiesi sono lentissimi”. Pensavo di non aver sentito bene. Come, non lo sai? I pistoiesi ci mettono una vita, in qualunque circostanza. Sono lentissimi. Ora lo so. Anche le storie di altri pazienti sono memorabili. Oggi ho sentito questa, per esempio. Un uomo anziano, che viveva solo, si è fratturato il femore a casa sua, in cucina, d’estate. Si è trascinato sul pavimento fino alla lavastoviglie, ha staccato il tubo ed è riuscito a bere dal rubinetto dell’acqua. E’ sopravvissuto così per quindici giorni. Quando ha sentito che gli inquilini del piano di sotto erano tornati ha ancora avuto la forza di battere sul pavimento fino ad attirare la loro attenzione. Gran storia, no? Quindici giorni, quindici notti. L’altra faccia del turismo estremo. C’è un protagonista nella struttura in cui vado a riabilitarmi, si chiama Massimo, è “malato di nervi”, come proclama a ogni nuovo avventore. Qualcuno ne è infastidito, perché parla a voce molto alta e dice spropositi, i più simpatizzano con lui e gli offrono volentieri un caffè d’orzo e una ciambella, anch’io, che mi compiaccio di apparire generoso, sia pure negli spiccioli. Oggi Massimo era così indignato che non era facile distinguere nelle esclamazioni – “Che banda! Che mondo! Son tutti pazzi, te lo dico io!” – la causa dello scandalo. L’ho aiutato a calmarsi e a riferire: era successo che “uno, un povero, uno di San Casciano”, gli aveva chiesto “un euro”. “A me, capisci? Mi chiede un euro a me! Che mondo! Che banda! Gli ho detto: io ti denuncio”.

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