Jessica Faoro e Pamela Mastropietro

Corpo e anima

Adriano Sofri

L’infamia della riduzione di alcune donne a cosa: prima oggetto d’uso e poi rifiuto

"Il corpo esanime", dicono alcune cronache per la ragazza di Milano, più pietosamente forse che “il cadavere”. La riduzione delle donne a corpo senz’anima sta appena prima del corpo esanime. Ci sono troppe cose che si somigliano, nelle cronache. Anche i visi delle ragazze si somigliano. E poi: “sono minute”, ma non abbastanza per un solo bagaglio a mano. Hanno bisogno di due trolley, come a Macerata. Di un borsone, come a Milano, ma con mezzo corpo bruciato. Questioni di capienza. Con alcune donne la riduzione a cosa, prima oggetto d’uso poi rifiuto, appare pressoché naturale: “drogate”, “puttane”, o drogate e puttane insieme, sembra agli utenti che siano loro per prime a dissociarsi dal proprio corpo, a perseguirne la distruzione o a offrirlo alle offese come se non riguardasse la loro anima. Ragazze che si bucano, si vendono a poco, espongono il loro corpo nudo alla notte d’inverno, scappano dalle comunità, corrono la strada, stanno chiedendo agli uomini di approfittarne, pensano gli uomini (non tutti? Non del tutto).

 

E’ l’altra metà dell’infamia dell’uccisione delle donne, quella che spesso le statistiche e i ragionamenti sul femminicidio dimenticano di considerare, dopo aver finalmente capito e riconosciuto che gran parte di violenze e assassinii avvengono in famiglia e fra vicini e fra amanti: la metà dell’uccisione o la violenza o l’indifferenza cinica verso donne sconosciute, ritenute donne “di nessuno”, ripudiate da se stesse, già perdute per la droga, per la prostituzione, per la disperazione. Ho appena letto centinaia di “commenti in memoria” nel Facebook della diciannovenne Jessica Valentina Faoro, traversata agghiacciante. L’accostamento fra l’assassino milanese e lo spacciatore nigeriano era inevitabile: e quell’affaccendarsi attorno ai corpi esanimi, quello squartare e bruciare e imborsare alle prese con la capienza lo rendeva ancora più inevitabile, benché in un caso l’assassinio sia provato e nell’altro sia almeno improbabile.

 

Si esita di fronte a un altro accostamento, iniquo se non lo si misuri con ogni prudenza, ma anch’esso a suo modo inevitabile: fra l’automobilista qualunque che dà un passaggio alla ragazza Pamela e le paga il piacere sbrigativo – poco, quello di cui lei si accontenta, il giusto… – dopotutto a lei sembra non importare niente, è il suo corpo non la sua anima; e il tranviere (i tranvieri non meritavano questo) che si procura con un annuncio l’ospitalità e i servizi domestici, tutto compreso, di una ragazza che aveva perduto tutto dal suo primo giorno e ogni giorno postava annunci per ritrovare cani smarriti o cercar casa a cani perduti. Lo lascio subito, questo avventato paragone: l’automobilista dei 50 euro non ha fatto niente, o quasi, chissà come sta pensando lui a quello che gli è successo di fare, povero disgraziato, e possa trovare pace. Però anche l’assassino milanese, che ha dovuto difendersi, così dice, con dieci coltellate di numero, starà pensando alla sfortuna che si è accanita contro di lui. Dei parecchi assassini di donne (le “loro” donne, mogli, ex fidanzate, amanti, o delle “puttane”, che sono “di tutti”) che ho conosciuto e frequentato e a volte abbracciato in galera ricordo uno, oltre la mezza età, che parlava solo della sua disgrazia. “Prima della mia disgrazia”, diceva, “dopo la mia disgrazia”. La sua disgrazia era che aveva dato qualche decina di coltellate a sua moglie.

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