Luca Traini

I nostri Breivik

Adriano Sofri

Anche Macerata ha i suoi mostri, forse solo più codardi. E’ per questo che bisogna volerle bene

1 - La pietà. La ragazza, 18 anni, molto bella nelle fotografie, un’aria ancora infantile, esce dalla comunità col suo trolley. Evade. La comunità ha porte aperte. Potrebbe decidere di dirglielo, ma cercherebbero di dissuaderla, avvertirebbero i suoi genitori, sua nonna. Se ne va. Ha le tasche vuote. Uno sciagurato, un italiano, le dà un passaggio, ha cinquant’anni, compra per 50 euro un rapporto sessuale con lei, in un garage vuoto, su una coperta. Lo rintracceranno, riferirà tutto. Lei arriva alla stazione di Macerata, la mattina dopo cerca uno spacciatore nigeriano, lui la indirizza a un altro. Lei paga 30 euro una dose di eroina, compra in farmacia una siringa, poi va col giovane nigeriano nella sua casa: nessuno di loro fa niente per non farsi vedere. Dopo, ci saranno testimoni e telecamere a iosa. Dopo il garage ora c’è l’appartamento da immaginare, fino alla morte di lei e alla ributtante pulizia e macelleria postuma, l’acquisto della candeggina, il trasporto nei due trolley – quello di lei e quello di lui – anche questo sotto gli occhi delle telecamere. La pietà è rischiosa, insinuante. Vorrebbe allargarsi: povera lei, povero lui, poveri tutti. No, non ora. Ora è strettamente riservata a una ragazza dall’aria di bambina che si era smarrita, aveva provato a tornare, si è perduta senza riparo. Se è vero che viene dal suo Facebook, vale la foto con la scritta sulla parete di un luogo sordido, una cella, una stanza del buco: “Voi mi odiate e io per dispetto vi amo tutti!”. Deve essersi illusa di credere qualcosa del genere per buttare via l’amore degli altri.

 

2 - Il fascista. Razzista, nazista, leghista, imbecille, muscoloso. Si può anche essere fascisti senza essere muscolosi, o leghisti, o imbecilli. A noi è capitato questo, non un vero mostro, come Breivik, una caricatura, ma più difficile perciò da allontanare del tutto da sé. Un compendio di trivialità. Vendicatore della donna, figlia, inerme e bianca, violentata – secondo lui – e trucidata e squartata dai pusher neri. Vendicatore della patria – donna e madre a sua volta violata e oltraggiata. Ne voleva uccidere uno, il colpevole, dice. Li voleva uccidere tutti, dice. Si è accontentato della mezza misura, 6, o 8, quelli neri che arrivavano a tiro, un paio di caricatori, poi la consegna alla polizia, in tutta sicurezza – in questo simile al codardo Breivik. Hanno continuato a fotografarlo col tricolore addosso anche in caserma, o sbaglio? Si è scusato di aver colpito anche una nera femmina, si è vantato di aver alzato la mira coi neri bambini. Etica. I pusher neri gli portavano via le ragazze bianche di cui si innamorava. Dalla palestra l’avevano mandato via. Però un tatuatore gli aveva tatuato sulla fronte la zanna di lupo, povero lupo. E gli avevano autorizzato e venduto la Glock, solo per il poligono, beninteso. Per un bel po’ nessuno è andato a trovare in ospedale i neri feriti. Avranno temuto che fosse controproducente, siamo in campagna elettorale, si dice. Ho un’interpretazione peggiore: non ci hanno pensato. Erano neri. Non è razzismo, è distrazione. Ci abbiamo messo un paio di giorni a ricordarci che ciascuna, ciascuno di loro aveva un nome proprio. Del resto due dei neri feriti, a quanto pare, hanno pensato bene di fuggire, dopo averla fatta così grossa: trovarsi sulla linea di tiro patriottica. E il fascista vendicatore è così triviale che ha sparato ai neri ma anche ai vetri della sede del Pd: combinazione da manuale, si sarebbe detto, i neri e il Pd. Il Pd ha mandato un suo dirigente degnissimo, il ministro Martina, ma ho letto che la riunione con gli iscritti si è tenuta a porte chiuse, e fuori manifestavano minacciosamente i fascisti di Forza Nuova. C’è una tentata strage fascista, e i fascisti manifestano contro il Partito democratico che si è preso un paio di pallottole: è carnevale dopotutto. Si è tentati di fare un altro paragone, oltre a quello con l’infame Breivik, che aveva scelto invece di sparare ai ragazzi bianchi e di tutti i colori del partito socialista norvegese. Il paragone con i “lupi solitari” (l’ho detto: povero lupo) dell’Isis, mentecatti anche loro per lo più, autoinvestiti della loro vile missione, e sempre più spesso inclini anche loro a farsi prendere vivi dopo aver massacrato all’ingrosso. Ma Salvini non è l’Isis, la sua non è la propaganda ipnotica delle teste mozzate. Infatti. E’ una propaganda di parole. Le più applaudite, su tutti i canali.

 

3 - Macerata. Ho una conoscenza breve e bella di Macerata, come quando si incontra in viaggio una sconosciuta, o uno sconosciuto, ci si innamora un po’, si pensa che sarebbe bello vivere con lui o con lei – per sempre? Per l’eternità – e si scende alla prossima stazione. Visitai le memorie di Matteo Ricci, camminai su e giù, era quasi Natale, c’erano le luci, la nebbia, i comignoli fumanti, i giovani giornalisti locali, i pittori futuristi di palazzo Ricci, ecco un posto in cui si vorrebbe vivere. “Pure a Macerata – scherzava Flaiano – c’è gente che vive e lavora”. In un incontro all’università si parlò di femminicidio. Imparai solo allora una storia di Macerata, che avevo appena orecchiato nelle cronache cosiddette nere.

 

4 - La signora Francesca Baleani. Macerata, 4 luglio 2006. Un giovane, Andrea S., di passaggio in una strada di periferia, contrada Montanello, sente dei suoni, forse dei miagolii, che escono da un cassonetto. E’ una donna, “praticamente piegata in due”, dentro un sacco di quelli usati per custodire abiti. E’ tumefatta e sanguinante, ha la bocca serrata da un nastro adesivo, un asciugamano sul volto. Andrea dà l’allarme. Di lì a poco sarebbe passato il camion della raccolta della spazzatura. La donna viene trasportata in ospedale, è piena di ferite e fratture, starà in coma farmacologico per più di tre settimane. Dovrà curarsi ancora per anni.

 

C’è subito un grande scalpore. Lei è Francesca Baleani, ha 36 anni, lavora alla Camera di Commercio, appartiene a una famiglia molto conosciuta. Lui, quello che l’ha ridotta così e ha confidato di averla ammazzata, è Bruno C., è suo marito e appartiene anche lui a una delle famiglie cittadine più in vista. Da qualche tempo sono separati di fatto, benché li si veda ancora insieme in pubblico. Lui ha avuto una storia, lei l’ha lasciato, lui non è disposto ad accettarlo. Due giorni prima erano insieme a guardare una partita dei Mondiali di calcio su un grande schermo. La sera del 3 luglio lui ha assistito alla prova della Turandot nel teatro Lauro Rossi: l’opera andrà in scena fra poco allo Sferisterio, di cui lui è direttore artistico. L’involucro in cui chiuderà quello che crede il cadavere della moglie viene dal magazzino dei costumi di scena. La mattina si è presentato a casa della moglie, senza preavviso, con dei cornetti e un bastone: “Un raptus”, va da sé. L’ha bastonata a sangue, l’ha strangolata col filo del telefono, l’ha chiusa nel sacco, l’ha trasportata nel bagagliaio dell’auto – lui è un uomo corpulento – e da lì fino al cassonetto. Poi è andato al lavoro. Quando la sorella di sua moglie che era andata a cercarla a casa e aveva trovato segni di sangue gli telefona, le dice di non saperne niente. Ma basta poco per venirne a capo. Anni dopo Francesca, che avrà deciso di denunciare la violenza contro le donne e di incoraggiare le donne a farlo, ricorderà che “nel 2006 non se ne parlava, non esistevano leggi a tutela, poco si parlava di stalking o dinamica dei femminicidi. Non c’era consapevolezza di un allarme sociale, della mattanza quotidiana”. Bruno C. è arrestato per pochi giorni, poi il magistrato competente lo dichiara incapace di intendere e di volere e lo manda prima in una clinica poi agli arresti domiciliari. Passerà molto tempo prima che lui sia condannato per il tentato omicidio, a 9 anni e 4 mesi. Andrà in carcere nel 2011, ne uscirà nel 2015, a pena scontata col cumulo con la comunità terapeutica, e cercherà di rifarsi una vita: auguri.

 

La signora Francesca Baleani ha scritto dei libri, è comparsa sobriamente e fermamente in televisione, dei libri e degli spettacoli sono stati scritti e messi in scena su lei. Mi scuso di aver così sommariamente raccolto la vicissitudine da cui è passata e cui è miracolosamente sopravvissuta. Non voglio nemmeno, dopo questo sommario, tirare la cosa a confronto con la tragedia maceratese di questi giorni. Mi è successo di chiedermi come l’ha fatto lei, il confronto. Frugando in rete avevo trovato la cronaca del Carlino su un incontro a Parma, l’anno scorso, che aveva avuto come ospite d’onore Francesca Baleani. Lei aveva detto: “Un impegno dietro i riflettori, il mio. Ho voluto così, per tornare a vivere. Ho dato la mia storia a chiunque ne volesse fare qualcosa di buono. Ho immaginato fosse il modo migliore per dare un senso a quel mio giorno. Grazie alle tante amministrazioni comunali e provinciali. No, Macerata non c’è nei ringraziamenti. Non so darmi risposta del perché io abbia incontrato studenti, in altre città d’Italia, e del perché mostrassero tanto affetto e orgoglio nell’avermi tra loro, e gioia sincera nell’incontrare questa donna che sono io. Oggi mi dico che va bene così. Anche in questo c’è resistenza, credo. Nel sapere di vivere in una città che non è capace di abbracciarti e di pronunciare il tuo nome e la tua storia senza provare imbarazzo. L’ambiente non è stato un punto di forza, e questo lo voglio dire per le donne che verranno, e che hanno provato il mio stesso isolamento. Direi loro: andate avanti a testa alta. Il mio monito per la città è: non avete donne comuni di fronte a voi. Abbiatene cura”.

 

5 - Macerata, nei titoli del mondo. Ho chiesto ai miei amici del terremoto, della città che si svuota di giovani, e gli studenti sono pendolari che vanno e vengono, e gli abitanti invecchiano e le notti sono vuote. In fondo a tutto questo mi pare che si debba volere un gran bene a Macerata.

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