Rifugiati provenienti dal Kurdistan iracheno celebrano Newroz, la festa di primavera per i curdi a Idomeni, Grecia (foto LaPresse)

Perché gli Stati Uniti guardano preoccupati al referendum curdo

Adriano Sofri

Il ruolo americano in medio oriente è messo alla prova dal voto di settembre

Il referendum curdo-iracheno indetto per il 25 settembre è un delicatissimo banco di prova della posizione degli Stati Uniti in medio oriente. Il governo regionale curdo, il Krg, aveva senz’altro contato su una benevolenza americana, dichiarata o dissumulata, alla propria iniziativa. Si trova invece di fronte un’opposizione non di maniera, e d’altra parte non può più tirarsi indietro senza perdere la faccia: questo vale soprattutto per Mas’ud Barzani. Mas’ud, oggi presidente prorogato del Krg, ha 71 anni, è figlio di Mustafa Barzani, leggendario comandante peshmerga, nacque a Mahabad, nel Kurdistan iraniano, proprio nel corso della breve Repubblica curda presieduta da Qazi Muhammad. Quella repubblica durata nemmeno un anno e soffocata sanguinosamente dall’esercito iraniano e dall’abbandono sovietico è rimasta gloriosa nella memoria dei curdi, un po’ come i cinque mesi della Repubblica Romana del 1849 in quella dei patrioti italiani. Da allora molta prosa ha soppiantato l’epopea curda, ravvivata tuttavia negli ultimi anni dalla resistenza vittoriosa allo Stato Islamico.

  

La vicenda del Kurdistan iracheno ha seguito in questi anni un doppio binario: quello militare, in cui i peshmerga hanno costituito a lungo sul terreno la principale, se non l’unica, forza combattente della coalizione internazionale guidata dagli Usa contro l’Isis; e quello civile, in cui hanno prevalso la crisi economica provocata dalla guerra, dal ritiro degli investimenti stranieri e dall’afflusso di un numero enorme di sfollati e profughi, e lo stallo delle istituzioni politiche, messe in mora dalle rivalità e i veti reciproci fra partiti e dinastie maggiori. Il referendum per l’indipendenza, a lungo ventilato, è stato infilato nel varco fra la fine, ancora incompleta, della cacciata dell’Isis dalle sue roccaforti (sta compiendosi la riconquista irachena e curda di Tal Afar, a 80 km a est di Mosul, e resteranno poi poche altre città a sud di Kirkuk, la principale delle quali Hawija) e la ridefinizione dei confini, che promette di scatenare altre guerre dirette e interposte. Barzani ha immaginato, come altri avevano fatto per l’Italia risorgimentale, di trovare una cruna d’ago nelle rivalità fra le troppe potenze maggiori, dalla quale far passare la proclamazione d’indipendenza, se non della nazione curda, della sua parte finora irachena, benché già largamente autonoma. Questo trapasso, che può sembrare poco più che formale, segnerebbe in realtà un vero sconvolgimento negli equilibri del medio oriente. Minoranze curde ingenti abitano l’Iran, la Turchia e la Siria, in Siria le più agguerrite e socialmente incisive – ora alle porte di Raqqa – in Turchia attrici e vittime di una guerra civile, in Iran più deboli ma ansiose di cogliere l’occasione che l’instabilità internazionale potesse offrire loro. (Sul “Mito curdo” è uscito l’ultimo numero di Limes, che contiene saggi anche fortemente discordanti, benvenuti comunque a ricapitolare e aggiornare la questione).

  

Intanto la posizione più paradossale e imbarazzante sta diventando quella americana. Gli americani, la loro forza aerea, il loro addestramento a terra delle forze “antiterrorismo” e lo stesso intervento di loro specialisti sul terreno, sono assolutamente decisivi per l’azione militare irachena, quella che da ultimo ha preso Mosul e va completando le operazioni di riconquista nelle province di Ninive, Salahuddin eccetera. Ma le forze irachene, così debitrici dell’appoggio americano, sono più che mai infeudate al grande fratello iraniano-sciita, e dunque gli americani rischiano di fare da servizio d’ordine a tutto vantaggio politico, e alla lunga anche militare, dell’Iran, cioè del loro principale avversario nella regione. Appoggiare il referendum curdo significherebbe esasperare Baghdad e accentuare questo rischio, tanto più che un conflitto di sciiti (iracheni e iraniani) contro curdi è possibile e addirittura probabile quando il referendum coinvolgerà i cosiddetti territori contesi, che sono molto estesi e popolosi e comprendono una metropoli petroliera come Kirkuk. Una situazione analoga stringe gli americani sul versante turco: i turchi di Erdogan sono bensì alleati dei curdi di Erbil (quelli di Barzani, a differenza dei loro confratelli-rivali di Suleimanyah, più vicini all’Iran) ma non al punto di tollerare uno stato curdo anche formalmente indipendente che eserciterebbe un’influenza, simbolica prima che materiale, contagiosa sui “loro” curdi, del sudest turco e del Rojava siriano. Gli americani, che scontentano i turchi cooperando decisivamente con le forze curde a Raqqa, ostentano di accentuare la loro ostilità al Pkk turco-curdo, per compiacere Ankara, benché sia indubbio il legame politico e militare fra Pkk e curdi del Rojava siriano. Gli americani rischiano in questo caso di assistere a un riavvicinamento fra nemici reciprocamente giurati come Turchia e Iran, e di giocare anche qui un ruolo di servizio d’ordine a vantaggio politico dei propri avversari, e dietro loro della stessa Russia, che è una specie di retroterra dell’internazionale sciita. Dunque anche su questo versante la freddezza americana sul referendum curdo del 25 settembre si spiega. Manca da oggi meno di un mese, nel quale si vedrà chi riuscirà a prevalere nel gioco fra il gatto americano e il topo curdo-iracheno, e quanto vantaggio ne trarranno i terzi e quarti e quinti litiganti. Al momento, la richiesta americana di un rinvio sine die (l’ha caldeggiata anche un impegnato intervento del New York Times poco fa) sembra troppo indigesta per Barzani, e un rinvio a una data fissata che non vada oltre il prossimo anno sembra insufficiente a saziare Baghdad. Sarà un settembre interessante.