LaPresse/Maria Novella De Luca

Le reazioni al voto sull'indipendenza del Kurdistan

Adriano Sofri

Turchia, Iran, Germania e Stati Uniti. Risposte internazionali forse prevedibili, ma non di pura maniera

L’annuncio della data del referendum sull’indipendenza del Krg, il Governo regionale curdo (iracheno) ha suscitato reazioni internazionali forse prevedibili, ma non di pura maniera. Quasi tutte contrarie, più severamente, credo, di quanto le autorità di Erbil e Suleimanya si aspettassero. A cominciare dalla Turchia. La Turchia è il principale e oggi pressoché l’unico sbocco dell’economia curda, dato il blocco del mercato iracheno e le impervie comunicazioni alla frontiera iraniana, dove pure si mira a un oleodotto. L’avvertimento contro il referendum è venuto dal ministro degli Esteri turco, ma già il presidente Erdogan aveva ammonito contro l’annessione di Kirkuk, sulla cui consistente minoranza turcomanna Ankara fa valere una propria influenza. La Turchia preferisce un Kurdistan formalmente iracheno che ritiene di poter controllare più o meno come un protettorato, specialmente nella sua parte dominata dal Pdk del presidente Barzani (la capitale Erbil e Dohuk).

    

L’indipendenza dall’Iraq, nonostante tutte le assicurazioni del Krg di non voler interferire col destino delle minoranze curde in altri stati, offrirebbe un esempio contagioso nel sud-est turco, dove si combatte una micidiale guerra civile. Ed è difficile pensare che uno stato curdo indipendente possa tollerare dentro le proprie frontiere le incursioni militari, per cielo e per terra, che l’esercito turco compie regolarmente a caccia del Pkk. Si oppone al referendum anche l’Iran, che a sua volta ha mire ingorde su Kirkuk e sulla sua provincia, in cui sono aperti da tempo focolai di scontri fra milizie sciite e peshmerga. La contrarietà di Baghdad è ovvia e da sempre esplicitamente dichiarata. L’argomento, usuale in questi casi, è che il Kurdistan non può decidere da solo e che la sua indipendenza andrebbe caso mai sottoposta al pronunciamento dell’intero Iraq. All’inizio dell’offensiva congiunta per Mosul un patto più o meno definito aveva riconosciuto ai curdi i territori, numerosi, conquistati dai peshmerga dopo l’avanzata dell’Isis nell’estate del 2014; la contropartita tacita, per il primo ministro iracheno Abadi, sarebbe stata la rinuncia curda alla secessione. Ambedue giocavano sull’equivoco, che ora si è sciolto. Il governo di Erbil aveva informato-interpellato nei giorni scorsi anche le decine di rappresentanze diplomatiche straniere. Il ministero degli Esteri tedesco si è fatto sentire ieri per mettere in guardia da passi unilaterali e ribadire il sostegno all’integrità dello stato iracheno. La Germania ha avuto un grosso peso, soprattutto economico, nella guerra all’Isis, ed è destinata ad averne uno altrettanto ingente, anche militare, nella gestione del dopoguerra – compresa la diga di Mosul, dove sono stati allestiti acquartieramenti che vanno molto al di là dei lavori idraulici. Gli Stati Uniti, per bocca di un portavoce del Dipartimento di stato, hanno espresso “sostegno a un Iraq unito, stabile e federale” e “apprezzamento per le legittime aspirazioni del popolo curdo-iracheno”. Che può sembrare un gioco di parole, salvo che la chiave stia in una di quelle parole, “federale”, che allude a un possibile particolare legame fra uno stato curdo e uno iracheno: ipotesi che in passato, ma piuttosto con la parola “confederazione”, era stata prediletta dall’altro maggior partito curdo, il Puk di Suleimanyah (e di Kirkuk).