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Lou Reed, la stella del malessere
Il più pazzo fra le rockstar aveva un’ancora di salvezza: il Tai Chi. Meditazione e chitarre punk
Lou Reed era uno stronzo, ma era un genio. Anzi, meglio, era un animo ipersensibile, sapeva essere amico appassionato, premuroso e ironico a detta di chi gli è stato vicino, però aveva un caratteraccio, umorale e scontroso. Ma scoppiava anche a piangere se leggeva la recensione negativa di un suo disco, nonostante fosse famoso per quell’aria da duro del rock con giubbotto di pelle nera, occhiali da sole e stivali con le borchie. E’ stato capace di scrivere canzoni bellissime con melodie armoniose e brani distorti e dissonanti al limite dell’ascoltabile. Ha sposato tre donne ma ha anche avuto relazioni con uomini (alla trans Rachel Humphreys, sua musa, ha dedicato nel 1976 l’album “Coney Island Baby”). Ha abusato di alcol e droga prendendosi l’epatite C, ma ha praticato per più di trent’anni l’antica arte marziale Tai Chi che l’ha tenuto in vita fino al 2013, quando la sua energia vitale, il qi, si è esaurita completamente.
Fin dal suo esordio del 1966 nella New York d’avanguardia con i Velvet Underground ha rovinato la vita a molti che hanno seguito il suo stile spericolato: è stato il fratello maggiore fuorilegge, il cattivo maestro che suggerisce vizi e perversioni ai giovani di tutto il mondo deviando il loro percorso su strade pericolose e sconsigliabili, facendo osservare la realtà da punti di vista rischiosi ma sempre vivissimi. In cinquant’anni di carriera ha esplorato l’amore tormentato e la perversione bazzicando i bassifondi di New York e, contemporaneamente, ha cercato una pace interiore e un equilibrio esistenziale frequentando le lezioni del Maestro cinese Ren Guang Yi, dando lui stesso lezioni ad amici e sconosciuti e consigliando a tutti questa pratica salvifica che mescola movimenti lenti e fluidi con respirazione e meditazione.
Già dal 1996 il Maestro Ren, pioniere del Tai Chi stile Chen, la sua forma più antica, è stato avvistato spesso sul palco accanto a Lou, accompagnando con lenti e profondi movimenti del corpo il significato delle canzoni suonate dal vivo, ma solo oggi vede la luce il libro che raccoglie tutti gli scritti e gli sforzi della rockstar per portare questa disciplina al grande pubblico. “Il mio Tai Chi. L’arte dell’allineamento” (Jimenez Edizioni) viene finalmente pubblicato dopo dodici anni dalla scomparsa di Lou Reed grazie al paziente lavoro dell’ultima moglie, la musicista Laurie Anderson, e al contributo di amici e artisti come Scott Richman, la scrittrice A.M. Homes, il regista Julian Schnabel, i produttori Hal Willner e Tony Visconti, musicisti come Iggy Pop e Anohni. Il libro, sebbene contenga una grande quantità di materiali eterogenei e a tratti caotici (scritti, riflessioni, trascrizioni di incontri pubblici, email private) è un ritratto intimo e a tratti sorprendente di un artista controcorrente e rivoluzionario che ha praticato gli antichi insegnamenti come percorso di studio e non come punto di arrivo, metodo per migliorare il modo di pensare e di suonare e, soprattutto, per salvarsi la vita. “Il Tai Chi Chuan cambia fisicamente il tuo corpo e la tua energia e ti rafforza”, dichiara Lou in un’intervista nel 2003.
“La gente pensa che io sollevi pesi, ma non è così. E solo perché faccio il Tai Chi stile Chen con Ren Guang Yi. Lo faccio due ore al giorno, tutti i giorni. Tanto. Lo faccio da venticinque anni, quindi non è una novità per me. Se salto la pratica, inizio ad avere dolori. Prima era il contrario”. Parole che sembrerebbero stridere con l’artista che, per citare il grande critico rock Lester Bangs, “ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock all’eroina, allo speed, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’imbranataggine e al suicidio”, ma attraverso questa biografia sui generis il cuore nero di Lou viene illuminato di una luce nuova, quasi impensabile. Scopriamo così un grande musicista che è anche studioso di filosofia, medicina tradizionale cinese e instancabile viaggiatore, che quando vola in Cina per omaggiare il suo maestro nel piccolo borgo che risale alla dinastia dei Ming si mette subito a praticare da solo senza nemmeno riposarsi dopo il lungo viaggio. Nonostante lui facesse spesso di tutto per inimicarsi il pubblico, la pratica del Tai Chi l’ha reso più umano e affascinante di come ci ha raccontato nelle sue canzoni con quella sua voce monotona e impassibile che a volte lo faceva sembrare annoiato, e questo libro ne è la prova.
Nonostante lui facesse spesso di tutto per inimicarsi il pubblico, la pratica del Tai Chi l’ha reso più umano e affascinante di come ci ha raccontato nelle sue canzoni
Tutti i tuoi psichiatri da strapazzo, ti fanno l’elettroshock, hanno detto che ti avrebbero lasciato vivere a casa con mamma e papà, invece che in ospedali psichiatrici, ma ogni volta che provavi a leggere un libro, non riuscivi ad arrivare a pagina 17, perché avevi dimenticato dov’eri, così non potevi neanche leggere, canta rabbioso in “Kill Your Sons”, uccidi i tuoi figli, nel 1974, e il testo spietato e feroce, su una ballata rumorosa, è qualcosa che ha provato davvero sulla propria pelle. Lewis Allan Reed detto Lou nasce a New York nel 1942 in una famiglia piccolo borghese ebrea e già da adolescente, appassionato di rock and roll e rhythm and blues, esprime dei turbamenti sessuali tanto che i genitori lo fanno sottoporre all’elettroshock. Lou ha a quattordici anni e invece che curarlo quell’evento sconsiderato diventa la cicatrice interiore che si porterà dietro tutta la vita.
La scoperta dello scrittore maledetto Delmore Schwartz, che insegnava Letteratura inglese all’università di Syracuse, e la frequentazione dei movimenti giovanili dei primi anni 60 lo avvicinano irrimediabilmente alla poesia dei perdenti, dei marginali, e alla droga. Schwartz, suo insegnante e mentore, prende in simpatia quel “ragazzo disorientato di New York” che nel 1966 gli dedicherà la canzone “European Son” nell’album d’esordio dei Velvet Underground, la band d’avanguardia che fonda nel 1966 con John Cale, un gallese appena trasferitosi nella Grande Mela per studiare la musica di John Cage e La Monte Young. L’intento di Reed è portare la sensibilità della letteratura nella musica rock: ai due si unisce il chitarrista Sterling Morrison, compagno di studi a Syracuse, e la sorella di un altro compagno di scuola, Moe Tucker, diciannovenne. La ragazza rimane scioccata alla prima prova del gruppo nel sentire uno dei brani composti da Lou, la celeberrima “Heroin”: “Rimasi davvero colpita. Era qualcosa di assolutamente diverso”, confessa la Tucker in seguito. Ma anche i tre maschietti rimangono sbigottiti quando Moe si presenta con quello che lei intendeva per batteria: due timpani suonati in piedi con i feltri, qualcosa più vicino alla musica tribale africana che al rock.
Il primo concerto dei Velvet Underground (il nome fu preso da un libro tascabile sul sesso suburbano raccattato letteralmente da una fogna) si tiene alla Summit High School in New Jersey nel 1965 di fronte a genitori e insegnanti scioccati. Ma solo qualche giorno e già si sparge la voce di questo suono stridente e ossessivo e della poesia di strada spesso improvvisata dei Velvet Underground. Al Café Bizarre del Greenwich Village si materializza l’artista pop per eccellenza, sua maestà Andy Warhol, che rimane affascinato da quello a cui assiste. Propone senza esitazione ai quattro di diventare il loro manager e di inserirli nel suo futuro show dove musica, arte, balletto e cinema si fondono: l’Exploding Plastic Inevitable Show prevede che i Velvet suonino, vestiti di nero e dando le spalle al pubblico, con la modella tedesca Christa Paffgen in arte Nico vestita di bianco e la proiezione dei film sperimentali di Warhol proiettati sul muro. Lo spettacolo folle e delirante attira celebrità come Salvador Dalí e Jackie Kennedy, intellettuali e drogati, e diventa il primo show multimediale che cambia completamente il destino di New York. Warhol, che prima di tutto è un grande uomo d’affari, intuisce il loro potenziale commerciale e produce il primo disco “The Velvet Underground and Nico” con la celebre banana sbucciabile in copertina, che diventa una delle sue opere iconiche più rappresentate e copiate.
Sto aspettando il mio uomo, ho ventisei dollari in mano, fino a Lexington 125. Mi sento sporco, più morto che vivo, sto aspettando il mio uomo. Ehi, ragazzino bianco, che ci fai in quartiere? Ehi, ragazzino, vai dietro alle nostre donne? Oh, mi scusi signore, non ci penso proprio. Sto solo cercando un carissimo amico, sto aspettando il mio uomo, canta Lou con una voce nasale e monocorde in “I’m Waiting For The Man”, una delle più potenti e crude canzoni rock di tutti i tempi. L’esordio nel mondo del rock è esplosivo come lo show di Warhol e il disco diventa, nel tempo, una pietra miliare anche se, all’epoca, è un disastro commerciale. In pochi anni però appassisce l’intesa tra Lou, Andy e la band: diventato il cantore ufficiale dei bassifondi di New York, tra siringhe, club sadomaso, travestiti e cuori infranti, Reed abbandona i Velvet nel 1970 e comincia una carriera solista ingaggiando una sfida costante con le case discografiche e la critica. Manda alle stampe un capolavoro come “Transformer” nel 1972, prodotto dall’amico ed eterno rivale David Bowie, e poi l’anno dopo “Berlin”, il concept album sull’amore dissoluto consumato all’ombra del Muro. In realtà Lou nella città tedesca non ci mette piede, a differenza di Bowie, e la critica lo massacra, ingiustamente, per i toni lugubri e drammatici delle canzoni, in netto contrasto a perle pop composte in precedenza come “Walk on the Wild Side”, “Satellite of Love” e soprattutto “Perfect Day”.
Gli anni 80 sono un momento molto nero per Reed, tra dischi rabbiosi e confusi ed eccessi di ogni tipo, mentre l’epatite C, probabilmente contratta attraverso una siringa infetta, comincia a debilitarlo. E’ di questo periodo la scoperta delle arti marziali e del Tai Chi, che comincia a praticare e che diventa la luce in fondo al suo tunnel. “Ho conosciuto Lou in un periodo in cui era profondamente segnato da anni di abusi di droghe e alcol che avevano danneggiato la sua salute e il suo lavoro”, racconta nel libro la seconda moglie Sylvia Reed. “Stava lottando per uscire da quella spirale autodistruttiva. Prima di disintossicarsi era arrivato al punto in cui le persone che lavoravano con lui non sapevano se sarebbe riuscito a finire uno spettacolo o se si sarebbe presentato per il tour successivo”.
“Ho conosciuto Lou in un periodo in cui era profondamente segnato da anni di abusi di droghe e alcol che avevano danneggiato la sua salute e il suo lavoro”, racconta nel libro la seconda moglie Sylvia Reed
Nel 1986 Lou fa l’incontro che gli cambia la vita, quasi più importante di quello con Warhol: conosce il Maestro Ren Guang Yi e comincia a praticare con lui, cercando di assorbire la sua straordinaria energia vitale. E’ una corsa contro l’autodistruzione e contro il tempo, con la pratica quotidiana cerca l’allineamento del suo corpo e della sua anima ovunque, sia sul tetto della casa di New York che in tour in giro per il mondo, nelle stanze d’hotel svuotate di tutti i mobili, nei parchi pubblici. Una giorno la sicurezza di un hotel viene allertata da qualcuno che segnala un tizio strano che brandisce una spada nel cortile: è Lou che fa Tai Chi con le sue spade, sempre in viaggio insieme alle chitarre.
“Una cosa che volevo fare da molto tempo era mettere il Tai Chi in musica. Ma devi trovare un maestro abile come Ren, che abbia non solo il talento marziale ma anche il giusto feeling. Ren non esegue solo un pezzo della forma, crea una performance diversa ogni sera: dipende da quello che sente, da quello che si adatta alla musica”, scrive Lou nel 2003, quando oltre all’epatite gli vengono diagnosticate cirrosi epatica, diabete e, infine, cancro al fegato. “Non c’è nessuno come lui, nessuno che io conosca è al suo livello. La sua forza è tale che ha sfondato il pavimento in due locali in cui abbiamo suonato”.
Dopo aver atteso a lungo una donazione di fegato e dopo un trapianto andato male, Lou si spegne nella sua casa di New York mentre compie l’ultima volta il movimento “Mani come nuvole”. L’ultima parola che dice a Laurie è proprio “Luce”. E poi il soffio vitale che l’ha tenuto in vita si spegne definitivamente. “Devo dire che è strano e meraviglioso collaborare con qualcuno che è morto da quasi dieci anni”, scrive Laurie Anderson nella postfazione. “Stiamo lavorando con Lou oltre la vita, cercando di immaginare cosa farebbe come autore di questo libro, e come continuare a portare avanti le sue idee e la sua energia”.
Quando passi attraverso il fuoco, passi attraverso l’umiltà, passi attraverso un labirinto di dubbi su te stesso, quando passi attraverso l’umiltà, le luci possono accecarti. Alcune persone non lo capiscono mai. Passi attraverso l’arroganza, passi attraverso il dolore, passi attraverso un passato sempre presente. Ed è meglio non aspettare che la fortuna ti salvi. Passi attraverso il fuoco verso la luce. Passi attraverso il fuoco verso la luce, canta Lou in “Magic and Loss”, una canzone del 1992, vent’anni prima di morire. Era come se avesse già visto tutto, e tutto vissuto.