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Beethoven portò la sinfonia all'altezza del cielo. Duecento anni fa la Nona
Per molti contemporanei quelle note erano errore, stranezza, assurdità. Ma il compositore sapeva di scrivere per il futuro. Da una forma di artigianato musicale alla massima espressione di libertà artistica
Quando, nel 1792, Ludwig Van Beethoven si accingeva a lasciare la natia Bonn per recarsi a Vienna, il conte Von Waldstein, mecenate del giovane compositore, gli augurò di poter “ricevere dalle mani di Haydn lo spirito di Mozart”. Un altisonante auspicio incentrato sui nomi dei maestri – l’esponente più autorevole del classicismo musicale e l’autore di alcune tra le pagine più alte mai scritte nella storia della musica – che avevano dato alla forma sinfonica un prestigio prima sconosciuto. Tra le mani di costoro, tuttavia, quella chiamata sinfonia era ancora una creazione che scaturiva da un gesto per così dire artigianale, privo della prorompente individualità che avrebbe caratterizzato le partiture di Beethoven: Haydn scrive più di cento sinfonie, Mozart quasi cinquanta; Beethoven ne comporrà nove. E l’una dall’altra si distanzieranno come gradini diversi di una scala orientata verso orizzonti sconosciuti.
I primi appunti che ci sono rimasti risalgono al 1788, ma la vera e propria stesura di una sinfonia sarà rimandata da Beethoven fino al 1799. Pare di cogliere, nell’atteggiamento del giovane maestro, una certa cautela nel presentarsi al pubblico con una forma così importante, attraverso la quale avrebbe poi dato vita a veri e propri monumenti della musica occidentale che il lettore può oggi incontrare con l’aiuto di preziosi volumi, come “Il genio di Beethoven. Viaggio attraverso le nove sinfonie” di Giorgio Pestelli (Donzelli, 2016) o “Le sinfonie di Beethoven” di Lewis Lockwood (EDT, 2016). Il 2 aprile 1800 venne presentata la Prima sinfonia composta da Beethoven, nella quale l’autore si poneva in continuità con la tradizione settecentesca: “Beethoven non è qui”, avrebbe notato più tardi Berlioz. E tuttavia non sono mancati osservatori che hanno individuato gli antecedenti della novità beethoveniana già in questa partitura che Donald Tovey, prendendo le distanze da pareri altrui, definì “un addio al Settecento”.
Solo pochi mesi dopo il completamento del suo esordio sinfonico Beethoven lavora a una Seconda sinfonia, in un periodo già segnato dalla sordità che, divenendo totale nel 1816, avrebbe costretto il maestro a usare quella ricca fonte di documentazione che sono per noi i quaderni di conversazione. Giorgio Pestelli sottolinea che “se la sordità nuoce al pianista, non avrà invece alcun danno per il compositore, anche quando diverrà totale; anzi, da molti è stata vista come un’occasione, un incentivo irresistibile per l’artista a rientrare in sé stesso, e riscoprirsi e approfondirsi”. Nella Seconda sinfonia – scrive Pestelli – “i contemporanei avvertirono qualcosa di eccessivo e sorprendente rispetto alle loro abitudini di ascolto”. Ne sono prova le recensioni dell’epoca, che accennano a “modulazioni troppo strane”, “passi troppo elaborati”, infine qualcosa di “eccentrico, selvaggio e rumoroso”: siamo sulla soglia di un nuovo orizzonte che si affaccerà più compiutamente nei lavori successivi.
Ancor prima di pubblicare la Seconda Beethoven è già immerso nella stesura della Terza sinfonia. Concepita nel tardo 1802, scritta e completata nel 1803, nell’Eroica giunge a noi quella che è stata definita una “musica di incendiaria novità” che all’epoca, come nota Lockwood, risultò “al di là delle possibilità di comprensione del grande pubblico”. “Tutto, – aggiunge Walter Riezler in riferimento al primo tempo – non solo la poderosa estensione di questo movimento, che spaventò i primi ascoltatori, era a quel tempo inaudito. (…) E’ subito chiaro che qui comincia una nuova epoca della musica classica”. L’Eroica venne eseguita pubblicamente il 7 aprile 1805 a Vienna e – ricorda Giacomo Manzoni – “come sovente accade con tutte le opere rivoluzionarie, questa composizione in un primo momento lasciò sconcertato il pubblico”, e ci fu chi notò che persino gli amici dell’autore “nella maniera più assoluta negavano che il lavoro potesse avere un valore artistico”, rimanendo come interdetti dinanzi a una partitura che – dicevano – “sfinisce persino gli intenditori di musica”.
“Credo che Cielo e Terra tremeranno, quando verrà eseguita”, aveva confidato l’allievo Ferdinand Ries, il quale fu peraltro protagonista di un divertente aneddoto che ebbe luogo durante le prove, circa l’inaspettato ingresso del corno nelle battute immediatamente precedenti la ripresa. E’ lui stesso a raccontarlo: “Alla prima prova di questa sinfonia, che fu disastrosa, ero vicino a Beethoven e quando il cornista eseguì la sua entrata com’era scritta, credendo che si fosse sbagliato, dissi: ‘Dannato cornista! Non è capace di contare? E’ orrendamente stonato’. Credo di essere stato molto vicino a ricevere uno schiaffo. Beethoven non me lo perdonò per lungo tempo”. Ciò che era novità pareva errore, stranezza, assurdità.
Affascinante risulta, per questo, il tentativo di immedesimarsi nella percezione del pubblico dell’epoca, che fin dalle opere della prima fase notò “una tendenza innaturale verso strane modulazioni, una avversione ai tradizionali rapporti di tonalità, un continuo accumularsi di difficoltà”. Era una consapevolezza che Beethoven annotò anche nei suoi diari: “Una futura generazione mi ricompenserà dei torti che ho dovuto sopportare da parte dei miei contemporanei”. Particolarmente significativa, in proposito, è l’ardita esclamazione di un pianista: “Beethoven (…) è un pazzo musicale, perché questa non è musica”; ma fu proprio l’autore a rispondergli: “Oh, ma questa non è roba per Lei, bensì per un tempo futuro!”. L’Eroica era qualcosa di inaudito, per certi aspetti inaccettabile, ma fu anche l’opera attraverso cui, come ha affermato Scott Burnham, Beethoven “ha liberato la musica dalle pastoie delle convenzioni settecentesche”. Analoga tesi viene espressa da Julien Green: “Forse la sordità di Beethoven ha liberato la musica. (…) Ci voleva un sordo per farci sentire qualche cosa di diverso”. Era stato il compositore stesso, del resto, a dichiarare i suoi intenti, nel 1802, a un amico: “Sono solo parzialmente soddisfatto delle opere che ho scritto finora. D’ora in poi batterò una nuova via”.
Le date che compaiono sui manoscritti non lasciano spazio a dubbi: lo sviluppo creativo delle sinfonie di Beethoven è tutt’altro che lineare, nella mente dell’autore le idee si accavallano e si sovrappongono e solo il tempo avrebbe permesso di definire la destinazione della grande quantità di annotazioni che egli riversa, in momenti assai distanti tra loro, nei suoi taccuini: sulla base dello studio delle partiture autografe Lockwood dimostra, per esempio, che le idee poi confluite nella Quinta sinfonia furono annotate vicino agli appunti dell’Eroica, insieme ad alcuni temi che sarebbero poi sfociati nella Pastorale, e ci conduce a scoprire che persino alcuni spunti della Nona vennero custoditi nei quaderni per più di un decennio.
Dopo la stesura dell’Eroica e prima di riprendere in mano gli appunti destinati alle due sinfonie successive, Beethoven verso l’autunno del 1806 lavora a una partitura caratterizzata da minore drammaticità espressiva: è la Quarta sinfonia, che Robert Schumann avrebbe poi definito ellenica per contrapporla al carattere delle due che la affiancano. In quegli anni la sinfonia non è più – come era stato nel Settecento – l’esito di una committenza che vincola la creatività del compositore per lo più indirizzandola alla rapida produzione di pezzi destinati all’intrattenimento nei salotti d’alta società; nell’incipiente romanticismo beethoveniano tale forma è ormai divenuta il luogo della libertà dell’artista che – pur cercando sovente i favori e il sostegno della nobiltà e sfruttando ancora il sistema del mecenatismo – si mette all’opera innanzitutto perché chiamato a essa dalla sua stessa interiorità: “Perché scrivo? – avrebbe detto Beethoven – Perché tutto quello che ho nel cuore deve uscire. Ecco perché”. La partitura diviene ora il luogo della soggettività del compositore il quale, scrivendo, non risponde ad altri al di fuori di sé stesso e – aspetto assai degno di nota – intende indirizzarsi alle profondità dell’animo altrui (“Dal cuore, possa giungere ai cuori”, avrebbe scritto Beethoven nella prima pagina della Missa Solemnis). Di qui deriva il carattere monumentale – tipico del Romanticismo e sconosciuto al Settecento – di sinfonie che sono ora l’esito di rovelli e continui ripensamenti volti ad avvicinarsi a un’idea che pare rimanere sempre al di là di ciò che sulla carta può essere scritto; la musica diviene un veicolo assoluto di espressione, degno – come scrisse Schopenhauer – di dischiudere “l’intima essenza del mondo (…) in un linguaggio che non è inteso dalla ragione”.
Le strutture fondamentali delle Quinta e della Sesta – le cui idee germinali risalivano ancora al 1804 – furono preparate nello stesso periodo, nonostante i loro caratteri assai differenti (“evidentemente – ipotizza Riezler – la concentrazione sovrumana richiesta dalla Quinta spinse Beethoven a distendersi in un’opera completamente antitetica”) e poi entrambe le partiture rimasero ad aspettare, incompiute, fino al 1807. Possiamo dunque immedesimarci nella serata del 22 dicembre 1808, in cui va collocata la presentazione pubblica della Quinta e della Sesta, che – dettaglio assai curioso – vennero numerate al contrario rispetto alla classificazione poi affermatasi: il pubblico aveva riempito il teatro, ma il programma estremamente lungo, l’ambiente non riscaldato, l’esecuzione tutt’altro che impeccabile (un concerto tenuto da Antonio Salieri nella stessa giornata aveva sottratto a Beethoven i musicisti migliori) indussero numerose persone a lasciare la sala prima del termine della serata; lo stesso Beethoven, secondo le testimonianze, suonò in modo molto impreciso in quella che sarebbe stata la sua ultima apparizione come pianista.
Eccoci dunque alla creazione che Robin Wallace descrisse come “l’epifania di una nuova epoca nella storia della musica”, all’opera che Goethe definì “sorprendente e grandiosa”, alle pagine che Louis Spohr chiamò “una babele priva di senso”, alla composizione che secondo Hector Berlioz rappresenta la “diretta e unica emanazione del genio di Beethoven”. In riferimento alla Quinta – a partire da quell’incipit che rimane forse il frammento più noto della storia della musica – le espressioni perplesse dei commentatori non si contano e rimangono ai nostri occhi come segno di una meraviglia che per l’ascoltatore di oggi è arduo cogliere pienamente: è – scrisse Edward Morgan Forster – “il più sublime frastuono che sia mai entrato nell’orecchio di un uomo”. Meraviglia, perplessità, sconcerto si mescolano nelle recensioni dell’epoca, che al contempo riconoscono: “E’ certamente vero che nelle sinfonie di Beethoven si trova un superiore mondo di spirituali meraviglie”. Uno stupore confermato dalle parole del contemporaneo E. T. A. Hoffmann, secondo cui la musica di Beethoven “suscita quel palpito d’infinita nostalgia che è l’essenza stessa del romanticismo” e “trascina irresistibilmente l’ascoltatore nel meraviglioso regno spirituale dell’infinito”.
Scritta contemporaneamente alla Quinta, la Sinfonia pastorale ci conduce in un clima assai differente, riferibile a un ambiente che l’autore aveva molto caro: “Come sarò lieto di potermene andare in giro per un po’ fra siepi e boschi, fra alberi, erbe e rocce. Non c’è nessuno che possa amare la campagna quanto me”, scrisse nel 1810. Ne emerge una sorta di omaggio alla natura, quasi “pittura” in musica fatta di ricordi che, come dimostrano gli appunti, egli custodiva a lungo, per poi recuperarli d’un tratto e porli in partitura. Beethoven stesso, in una testimonianza, riferì: “Porto le mie idee a lungo dentro di me, spesso per molto tempo prima di metterle per iscritto. Ma la memoria mi è così fedele che sono certo di non dimenticarle”. Da dove provenivano queste idee così lungamente custodite? Anche questo possiamo chiederlo al compositore: “Mi domanda da dove prendo le idee? – rispose una volta – Non posso dirlo con certezza: mi giungono da non so dove, non chiamate (…). Potrei quasi afferrarle con le mani, all’aperto, nei boschi, durante le passeggiate, nel silenzio della notte, all’alba”. Era forse una dinamica che si intensificò con l’imporsi della sordità: Richard Wagner notò, infatti, che “quanto più egli perdeva il contatto con il mondo esteriore, tanto più chiaramente il suo occhio penetrava nell’intimo del suo mondo interiore”, come pare emergere anche dall’impressione che Goethe confidò alla moglie: “Non ho mai visto un artista più concentrato, più energico, più profondo”. E’ una vera e propria rivoluzione musicale quella che avviene in quegli affascinanti, densissimi anni. Come scrisse Maynard Solomon, “Beethoven condusse la musica al di là (…) del classicismo viennese; egli consentì a forze disgregatrici e aggressive di accedere all’interno delle forme musicali”. E appare estremamente significativo l’appunto che il compositore stesso – in una sorta di dialogo interiore – scrisse a margine di un manoscritto: “Fa’ che la tua sordità non sia più un segreto – neppure nell’arte”.
“Questa sinfonia è l’apoteosi stessa della danza, è la danza nella sua essenza più sublime”, osservò Wagner. Opera caratterizzata dal principio alla fine dall’elemento ritmico, oltre che da quell’Allegretto che è una delle pagine più cariche di malinconia di tutta la musica occidentale (non a caso, alla prima esecuzione, venne ripetuta due volte per le acclamazioni del pubblico), la Settima sinfonia vede la luce nel 1812. Sorprende, in questa partitura, il modo inedito con cui la vivace frenesia del primo movimento lascia il posto alla dolorosa mestizia dell’Allegretto, con il repentino e del tutto insolito passaggio – sorta di licenza poetica – che tranchant conduce la musica dal la maggiore al la minore. Ma sorprende ancor più il fatto che, dietro le ombrose sembianze di questa melodia, permanga drammatico e intatto quell’impulso ritmico fondato su dattilo e spondeo che, dopo aver accompagnato il primo movimento, come una sorta di pensiero dominante continua ad affacciarsi inquieto, durante il secondo, nel pizzicato degli archi. Come era avvenuto per le sinfonie precedenti, anche qui troviamo, nelle cronache dell’epoca, lo stupore per i caratteri rivoluzionari – pur non così evidenti all’osservatore che si rivolge a queste opere dal nostro presente – nelle reazioni degli ascoltatori del tempo, e non mancò chi ritenne che l’autore avesse composto quest’opera in stato di ubriachezza: “Nessuno – conclude Jan Caeyers – prima di allora aveva tentato un esperimento simile”. La Settima sinfonia ci porta dal sussurro al grido, in un clima di introspezione di rara intensità. Criticata e al contempo applaudita, di questa partitura si notò soprattutto il carattere vorticoso e travolgente, specialmente nel repentino finale (“sembra di vedere il compositore gettar via la penna”, avrebbe scritto Schumann) manifestando stupore per una musica che, come scrisse Martin Geck, “si rivolge più ai sensi che allo spirito”.
Meno conosciuta è l’Ottava sinfonia (ed ecco che qualcuno nota che nel catalogo beethoveniano le sinfonie con numero dispari hanno messo in ombra quelle con numero pari) i cui materiali, a quanto sembra, erano stati abbozzati per essere destinati a un concerto per pianoforte e orchestra. L’Ottava – come notò Schumann, “la meno eseguita e ascoltata” – priva della drammaticità che permea altre pagine è apparsa a molti come una sorta di “sinfonia del buon umore” per la ricchezza di elementi umoristici e perfino burleschi – benché in una partitura non priva di contrasti e improvvise profondità – che paiono talora ammiccare ironicamente al secolo che l’autore si era messo alle spalle. Una “rivisitazione dei modi classici” che tuttavia – avverte Lockwood – “non deve essere vista come una regressione, ma come un ulteriore ampliamento del suo spazio artistico, un’espressione del suo senso di libertà”: in quest’ottica, forse, possiamo notare con Caeyers che “le cinquanta battute finali dell’Ottava Sinfonia, che insistono su un unico accordo, fanno pensare a un lungo epilogo musicale: la fine di un’èra”.
All’atto di avvicinarsi alla Nona, ci si domanda da quale parte cominciare. Forse la cosa migliore è partire da quel “pensiero fuggevole” – come lo definisce Lockwood – che Beethoven aveva annotato su un taccuino ai tempi dell’Eroica, un frammento che sembra uscire dall’inconscio e, dopo un’attesa di circa vent’anni, andare a costituire il nucleo fondamentale dell’ultima sinfonia. Qualcosa di assolutamente sorprendente stava per essere ascoltato: “La vostra musica nondimeno rimane per noi del tutto incomprensibile”, avevano confidato alcuni amici al compositore. Quando questi viene a sapere dei giudizi negativi del pubblico – che additava la ormai nota sordità del compositore come causa di quelle inaccettabili novità – dichiara: “Non piace, ma piacerà”. E’ quella parabola senza eguali – fino al culmine della Grande Fuga, giudicata “incomprensibile come il cinese” – che l’autore percorre nella drammatica compagnia di una sordità che anziché divenire ostacolo nel rapporto con l’arte, pare essere, trasformando il limite in risorsa, l’occasione di idee prima inconcepibili: “Non disturbato dai frastuoni della vita – commenterà Richard Wagner – Beethoven rimane solo, intento alle sue armonie interiori. Allora l’essenza delle cose parla di nuovo a lui nella serena luce della bellezza”.
Chi scrive ha recentemente avuto occasione di parlare di quest’opera con Riccardo Muti, che a duecento anni dalla genesi della Nona è stato chiamato a dirigerla proprio a Vienna. In riferimento al misterioso, rivoluzionario incipit, egli confidava: “Qui avviene un meraviglioso passaggio tra il silenzio assoluto e il silenzio della musica: è uno degli abbrivi più difficili che esistono, in cui il direttore con un cenno deve portare secondi violini e violoncelli a creare un fremito, una specie di vibrazione universale. Sulla mia partitura proprio in prossimità di questo incipit cosmico, ho trascritto un verso del poeta russo Lermontov: ‘Silenziosa è la notte. Il deserto è in ascolto di Dio, / E la stella parla alla stella’. In quel momento il direttore deve uscire dal silenzio esprimendo il fremito dell’intero universo”.
Questa straordinaria cattedrale in musica che è la Nona vide la luce a distanza di almeno undici anni dalle precedenti. Appunti sparsi, poi confluiti in questa partitura, si trovano distribuiti nei manoscritti di svariati anni prima: spunti, idee, annotazioni poi lasciati in sospeso e ripresi in mano dopo il completamento di alcuni tardi capolavori. E’ solo nel 1823 che Beethoven li recupera, unendoli all’idea, anch’essa custodita per anni, di un utilizzo dell’ode An Die Freude di Friedrich Schiller – testo disseminato di ideali illuministici a lui tanto cari – per completare l’opera con un intervento corale. La scrittura di Beethoven è frammentaria, disordinata, impetuosa e le note – tracciate in inchiostro marrone con vigorosa pressione della penna sul foglio – sono spesso di non facile decifrazione. Mise forse in discussione, per un periodo, il finale corale (esistono appunti per un “finale instromentale”) e certamente scrisse e stracciò molte volte le modalità del suo ingresso. La partitura fu dedicata a Federico Guglielmo III di Prussia, che mostrò di non rendersi conto del valore di ciò che riceveva. Beethoven ricevette in ricompensa un anello con pietre preziose, ed estremamente contrariato valutò se rifiutare il dono. Poi lo accettò e – come osserva Caeyers – “ricavò così trecento fiorini dal manoscritto che oggi ha lo status di patrimonio mondiale dell’umanità”.
L’opera venne eseguita per la prima volta il 7 maggio 1824, a Vienna. La voce di una nuova sinfonia del maestro si era sparsa e in città il senso di attesa era palpabile. Quando la partitura fu pronta, i copisti si misero al lavoro sulle pagine da preparare per l’orchestra, ma le difficoltà di decifrazione della difficile calligrafia produssero tensioni a non finire. Beethoven si accorse d’un tratto che gli introiti della serata gli avrebbero garantito un guadagno assai modesto; i membri dell’orchestra erano in pensiero per lo studio di una partitura d’inedita difficoltà (“Non è musica delle più facili”, scrisse delicatamente uno di loro su un taccuino del maestro); qualcuno si azzardò a chiedere semplificazioni, ottenendo ovviamente il più netto diniego dell’autore, il quale, affranto e stanco di doversi affidare a imprecisi copisti, curiosamente una sera domandò se “non esistesse un sistema per produrre copie di un manoscritto vergato di propria mano, così da potersi liberare dei copisti”. I cantanti, alle prese con lo studio della loro parte, si confidavano le loro preoccupazioni: il soprano Henriette Sontag affermò di non aver mai studiato qualcosa di così difficile; il contralto Caroline Unger fece notare al compositore una nota troppo acuta: “Studiala! Vedrai che verrà, la nota”, fu la risposta di Beethoven. Le fonti narrano che la sera dell’esecuzione, dirigendo, il maestro “si sollevava in alto, poi si abbassava fino a terra, agitava le mani e i piedi come se volesse suonare tutti gli strumenti e cantare tutte le parti del coro”. In un’epoca in cui era norma applaudire durante l’esecuzione il pubblico si lasciò andare a un applauso scrosciante già al termine del secondo movimento, ma Beethoven non se ne accorse nemmeno e una delle cantanti dovette prenderlo per mano invitandolo a voltarsi verso la platea. Altri applausi accompagnarono la musica, anche nel bel mezzo dell’esecuzione, e fragoroso ci viene descritto quello finale. Terminata l’esecuzione, Beethoven dovette tornare sul palco per cinque volte: “Nessuno aveva mai avuto un simile trionfo”, osservò l’amico Schindler. Era, collocato in una primaverile serata viennese, il culmine dell’itinerario del più rivoluzionario dei compositori: “Mai – conclude Walter Riezler – una singola opera ha suscitato tanta emozione nel mondo (…). Non soltanto fra i contemporanei, ma anche fra i posteri”.
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