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la scuola in teatro

A lezione da Riccardo Muti: inizia a Ravenna la Italian Opera Academy

Stefano Picciano

Genesi di un’interpretazione. Con gli allievi guidati dal maestro nel Requiem di Verdi

C’è fermento nell’aria, mentre mi inoltro sul retro del palcoscenico verso i camerini. Tutt’intorno i ragazzi, seduti qua e là, accordano i loro strumenti, i cui suoni si mescolano in quella tipica, armonica confusione che sempre precede l’apertura del sipario. Finalmente un’ultima porta si apre e il maestro, atteso da tutti là fuori, si intrattiene alcuni minuti con noi. Il tempo di un breve dialogo, una foto, poi uno sguardo all’orologio e l’uscita sul palco. Ha inizio a Ravenna la Italian Opera Academy di Riccardo Muti, la preziosa iniziativa che permette al maestro di riproporre al presente una tradizione che giunge, intatta nel suo fascino, da lontano. 

  
“La vecchia scuola”, come lui la chiama: quella del suo maestro Antonino Votto e, dunque, quella di Toscanini di cui Votto fu assistente. E’ come una finestra che si apre e invita i giovani aspiranti direttori ad affacciarsi su un passato affascinante e autorevole, che Muti offre ai suoi allievi brevi manu, mentre sta al loro fianco su quell’isola di solitudine – come lo ama definire – che è il podio. Li corregge, mostra loro i singoli gesti, talvolta li rimprovera, ma sempre con quella affettuosa ironia ch’è tratto tipico di un maestro che, a un determinato momento della sua sconfinata carriera, ebbe un’idea chiara: “Ritenni quasi indispensabile (…) comunicare agli altri, in particolare ai ragazzi che uscivano dai conservatori, (…) la mia esperienza”. E ciò non accade nel privato spazio di un’aula, ma in teatro. Così Muti permette al pubblico di assistere a quel vertiginoso, potenzialmente infinito processo che è l’allestimento di un’opera musicale. Nota dopo nota la platea è posta innanzi al delicatissimo, misterioso rapporto tra direttore e orchestra. Ecco allora che uno stesso passaggio è ripetuto innumerevoli volte, in un labor limae – colore, timbro, dinamiche – che appare come un’approssimazione a un orizzonte infinito. Più volte si rivolge al pubblico, “perché il futuro della musica sta nel rapporto diretto tra interprete e ascoltatore: il pubblico deve essere coinvolto in questo lavoro”. La distanza è eliminata d’un tratto e la platea si sente coinvolta hic et nunc nell’avvenimento della musica, che in questo caso è il Requiem di Giuseppe Verdi: “Spesso – ricorda Muti – ho avuto la soddisfazione di veder illuminarsi gli occhi degli spettatori e di trasformare questi ultimi, assieme a me e all’orchestra, in coprotagonisti”. 

  
Non ha fretta, il maestro, e chiede le ragioni di ogni cosa: anche il più piccolo gesto della mano, del polso, delle dita, ha una ragione e, quindi, delle conseguenze sulla musica. Ogni singolo passaggio viene indagato e – verrebbe da dire – illuminato. Perché – e questa, forse, è l’affermazione più bella – “ogni nota è un mondo”. Spiega queste cose con autorevolezza, ma mai in modo duro o imperioso: è sempre – ci pare – una proposta alla libertà dell’allievo. Infatti, come Muti ama ricordare citando Schoenberg, “il maestro non deve mostrarsi come un individuo infallibile che sa tutto e non sbaglia mai, ma come l’instancabile che è sempre alla ricerca”. Non c’è dunque bisogno, in questa fondamentale umiltà, di inventare nulla: basta che interprete e direttore leggano esattamente – altra grande eredità di Toscanini – ciò che è scritto sulla partitura; ben sapendo, però, che “i suoi segni sono fatalmente inadeguati e invano hanno provato da secoli a imprigionare l’imponderabile”. 

    
Scherza con gli allievi, alterna sapientemente spiegazioni e battute di spirito, cordialmente rimprovera uno di loro che gli risponde “ok”, rammentandogli che si trova nel “bel paese là dove ’l sì suona” (Dante, Inf, XXXIII, 80). Al soprano, che si chiama Veronica, ricorda – in un excursus solo apparentemente estrinseco al contesto – che il suo nome significa “vera icona”: è l’icona del Cristo, rimasta impressa sul telo che una donna gli pose sul volto insanguinato durante la passione. Un gesto di estrema familiarità con il divino che, a ben pensarci, è un’immagine tutt’altro che estranea a questa partitura di Verdi. Muti spiega infatti: “la differenza tra il Requiem di Brahms, per esempio, e quello di Verdi, sta nel fatto che lì vi è consolazione per i viventi, mentre in Verdi assistiamo a una vera e propria battaglia dell’uomo che, di fronte al mistero più drammatico, esige da Dio una risposta”. “Noi – aggiunge Muti d’un tratto – con Dio parliamo a tu per tu. L’importante è quindi individuare l’espressione di questa umanità, del grido contenuto in questa partitura, in questa musica. Una musica che, anche oggi, si rivolge all’uomo per parlargli dell’uomo”. 
 

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