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La recensione

La Scala e il dissidio con Muti, la Milano del Piccolo, la politica culturale: il libro di Fontana

Alberto Mattioli

Nella sua biografia il manager racconta la sua battaglia teatrale con il direttore d'orchestra, la formazione e la militanza politica tra sovrintendenze e lottizzazione

I giornalisti si sono avventati su questo libro, Sarà l’avventura - Una vita per il teatro (il Saggiatore, 320 pp., 27 euro), biografia professionale di Carlo Fontana, ex sovrintendente della Scala, ex senatore Pd e molto altro, perché per la prima volta Fontana fornisce la sua versione della madre di tutte le battaglie teatrali, quella che l’oppose a Riccardo Muti alla Scala e si concluse con un esito curioso: persero entrambi. Fontana fu cacciato da Muti e Muti, poco dopo, dai lavoratori della Scala nel più clamoroso antiplebiscito della storia: più di settecento voti contrari, due favorevoli, tre astenuti. Ma mancano le attese rivelazioni perché Fontana, gran signore, si limita per lo più a produrre documenti, lettere sue, di Muti, del sindaco Albertini (compreso il pentimento “postumo”, diciamo così, per averlo sfiduciato), ritagli di giornali, qualche parco episodio. Il più curioso è quello di Fedele Confalonieri, mutiano a 24 carati, che a cena apostrofa così Fontana: “Tra Sacchi e Van Basten, io scelgo Van Basten”. Ma c’è niente che già non si sapesse, o non si fosse immaginato. Fontana rivendica con forza la sua gestione, soprattutto la chiusura per restauri della Scala, il suo momentaneo trasloco agli Arcimboldi e la sua riapertura nei tempi previsti, e fu quello, sul serio, un vero miracolo italiano. Sul bilancio artistico avrei invece parecchie obiezioni, ma si sa che in materia d’opera le estetiche possibili sono molte e molto diverse, insomma “chacun à son goût”, come riassume Johann Strauss figlio. 


Però a me del libro ha intrigato molto di più la prima parte, il Bildungsroman del giovane Fontana, figlio di uno storico segretario generale del Comune di Milano, prima opera vista alla Scala a cinque anni (e che opera: La Valchiria diretta da Furtwängler), poi la scoperta del teatro, il Piccolo con Paolo Grassi, la Fonit Cetra, la Biennale Musica, una prima fortunatissima sovrintendenza, al Comunale di Bologna. La parte sul Piccolo è forse la più bella e la più nostalgica. Nostalgia di quella Milano intellettuale e impegnata, anche un po’ manichea nel suo essere democratica e antifascista full time, ma viva, vitale, consapevole che la cultura è un servizio pubblico e uno strumento di crescita per tutti. Insomma, la Milano di Paolo Grassi, quella del Piccolo originario, una delle poche vere utopie realizzate nella nostra storia contemporanea, il teatro come diritto dei cittadini e dovere della politica. E qui si apprezza molto anche la fedeltà di Fontana a Grassi quando la coppia con Giorgio Strehler scoppiò, e quasi tutti presero le parti dell’artista contro l’amministratore, che invece dei due era forse il più limpido, e certamente il più razionale.

Le lettere di Grassi sono una delizia e una lezione. Come questa del 12 gennaio 1970: “La cultura è una cosa, l’organizzazione della cultura è un’altra […]. Devi guardare a tutto, sorvegliare tutto, prevenire tutto. Devi fare la mattina ciò che puoi fare al pomeriggio, devi fare il lunedì ciò che puoi fare il martedì, devi riflettere, anticipare, e se si tratta di una cosa fissata per le 10 devi esserci dieci minuti prima anziché 30 secondi dopo”. Oggi che tutti si riempiono la bocca di “rigore”, ecco qualcuno che poteva pretenderlo dagli altri perché lo praticava in prima persona. Poi, certo, conta anche la militanza socialista di Fontana. C’è Craxi che gli conferma che sì, sarà lui il nuovo sovrintendente della Scala con queste parole: “Iscrivi pure Vittoria [la figlia, ndr] a Milano”, insomma nel libro c’è tutta la politica culturale della Prima Repubblica, e anzi diciamola la parola che nomar non oso: la lottizzazione.

Qui forse Fontana è troppo ottimista: “Lottizzazione? Certo. Esiste ovunque, con la differenza che altrove è fatta senza ipocrisia: in Francia non è pensabile la nomina al vertice dell’Opéra di Parigi di una personalità che non sia politicamente omogenea al presidente della Repubblica”. Per la verità, l’attuale direttore è un tedesco, Alexander Neef (ditelo a Sgarbi, che proclama un giorno sì e l’altro pure che in Francia mai metterebbero alla testa dell’Opéra uno straniero); a parte questo, però, il problema non è tanto la lottizzazione, ma come la si fa. Nella Prima Repubblica più o meno funzionava, perché almeno allora nessuno si sarebbe sognato di mettere in cattedra certi asini come succede adesso. Comunque, libro consigliabile a tutti e soprattutto ai nuovi reggitori della cosa pubblica: giusto per imparare cos’è una politica culturale, e come la si fa. 
 

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