Giovanna Marini (Olycom)

note da custodire

Giovanna Marini e la memoria dovuta alla canzone popolare, pezzo della nostra storia

Stefano Pistolini

Addio all'artista che ha dedicato sensibilità e intelligenza, entrambe straordinarie, a predisporre, tener vivo e rafforzare il nostro rapporto con la musica, attraverso dei canali che ora minacciano d’inaridirsi

Un breve elogio della musicista, musicologa e studiosa Giovanna Marini, scomparsa l'8 maggio scorso. Non per ripercorrerne la sterminata e valorosa produzione, cosa che altri, assai meglio che qua, possono fare. Ma per piangere la scomparsa e quindi la mancanza di una figura, o forse di un genere di figura o, meglio ancora, un magnifico prototipo di artista, che ha dedicato sensibilità e intelligenza, entrambe straordinarie, a predisporre, tener vivo e rafforzare il nostro rapporto con la musica, attraverso dei canali che ora minacciano d’inaridirsi. La perdita sarebbe tremenda. Perché la magnifica idea di Giovanna, nel corso della sua lunga carriera, è stato quella di dedicare al complesso sistema della musica popolare – non solo, ma principalmente italiana – le categorie nobili e decisive dell’analisi intellettuale, abbinata alla collocazione sociale e declinata con il valore storico, emotivo e psicologico.

 

Per individuare, recuperare, ordinare, valorizzare le produzioni della trasmissione orale e della creatività spontanea e animistica di tante aree della musica popolare, penetrandone il senso, il valore e l’estetica. E poi per diffonderle e spiegarle, mettendo tutti noi in condizione di capirle e apprezzarle. Procedendo a un’amorosa chirurgia di quei suoni, melodie e voci, risalendo alle fonti e discendendo alla riproposizione e alla condivisione di quelle espressioni spontanee e necessarie, minacciate dall’estinzione e dall’oblio.

 

Marini non agiva da sola in questo magnifico cimento, ma era parte e animatrice di un formidabile gruppo di fini intellettuali e artisti (Pasolini, Calvino, Della Mea, Michele Straniero, Gianni Bosio, Diego Carpitella, ma anche Umberto Eco e Dario Fo, Franca Rame, Sandra Mantovani…)  che trovavano finalmente in questa disciplina di ricerca e valorizzazione un accesso senza mediazioni alla volontà, al gusto e alla potenza dell’espressione popolare. Restituendo alla musica il suo più alto valore espressivo e comunicativo: l’innegabile disponibilità che ciascuno di noi può averne, mettendola al servizio di qualsiasi nostra volontà. Musica come strumento di vita.

  

   

Il dolore davanti alla scomparsa di Giovanna si acuisce perciò proprio nella sensazione di un’assenza di eredi e di continuità, che ottimisticamente attribuiamo alla nostra ignoranza, laddove oggi non si scorgono nelle praterie dell’etnomusicologia (ma anche della musica applicata alla politica, alla società, alla nostra cultura tout court) delle personalità che proseguano, con la medesima intensità e coerenza, un compito così importante. Perciò l’invito è a valorizzare e diffondere il lavoro che Marini ha svolto per tutti noi, oltre che per dar corpo al proprio personale piacere. La Scuola di Musica popolare di Testaccio a Roma, dove ha militato con passione e dove è accessibile parte del suo archivio, sarebbe bello le venisse intitolata e che ai suoi studi e al suo lavoro venisse dedicata stabilmente una particolare linea didattica. E poi, con calma e senza ansia di liquidazione, ai materiali e alle produzioni del suo instancabile percorso di ricerca andrebbe destinato un congruo contenitore informativo nei grandi media, perché solo gli stolti possono credere che, nella confusa Italia d’oggi, ciò non sia di sostanziale significato per comprendere, connettere e capire chi siamo e quale è la nostra storia.

  
Un giorno, in un’intervista con Antonio Gnoli, Giovanna s’impegnò a descrivere come la cantante popolare Giovanna Daffini le insegnò, basandosi sulla propria diretta esperienza di lavoratrice, perché il canto delle mondine, diversamente dal canto lirico, sia un canto di faccia e non di testa, e insomma possieda quella sonorità strozzata, che ha motivazioni anatomiche, ma anche emotive, per come contiene l’espressione di una fatica e la rivendicazione di una rabbia. E’ solo un esempio, ma rappresenta nozioni essenziali, segmenti irrinunciabili della comprensione di una cultura e della sua evoluzione. 


Un giorno, nel corso delle riprese di un film, siamo saliti a Monteporzio, ai Castelli Romani, dove abitava Giovanna. L’occasione era una conversazione davanti alle telecamere che lei doveva fare con Francesco De Gregori, per ripercorrere il comune tracciato della loro formazione musicale. Però una volta nel salotto di Giovanna, dalle cui finestre s’intuisce giù in fondo Roma, lei e Francesco presto lasciarono indietro le parole, per prendere due chitarre e prendere a scambiarsi suggestioni musicali, cantandole, pescandole dappertutto, nell’America di Woody Guthrie, come nel repertorio del Nuovo Canzoniere Italiano. Ecco: proprio quella trasmissione, quel riuso e quel reciproco ritorno alla vita di suoni e musiche della nostra storia, al sottile, sfumatissimo confine tra ricerca e arte, descrivono la materia di cui Giovanna Marini ci lascia testimonianza e insegnamento. Che sarebbe dolorosissimo andasse perduto.