Maurizio Pollini al Carnegie Hall nel 2019 (Hiroyuki Ito/Getty Images) 

È morto il maestro Maurizio Pollini, pianista divisivo perché capace di un pensiero forte

Mario Leone

Aveva ottantadue anni e ha dato lustro all’Italia, vincendo il Concorso Chopin 1960 e calcando le più importanti sale da concerto. È stato capace di mostrare la sua fragilità, enorme, come il suo talento

Aveva ottantadue anni e da alcuni mesi l’agenda dei concerti del 2024 era piena di date rinviate. Si sapeva che le condizioni di salute di Maurizio Pollini non erano delle migliori, ma questo non allevia il dolore per la scomparsa di uno dei più grandi pianisti del secondo Novecento e oltre. Lui che ha dato lustro all’Italia, prima vincendo il Concorso Chopin di Varsavia, nel 1960, e poi calcando le più importanti sale da concerto, da solo o accompagnato dai grandi nomi della musica.

 

“Questo giovane suona tecnicamente già meglio di tutti noi”, tuonò Arthur Rubinstein ascoltandolo nelle prove dello Chopin. All’epoca Pollini aveva diciott’anni. Longilineo, viso poco espressivo e mani baciate dal talento, vince nella patria di Chopin per la sua ossessiva adesione alla partitura, la perfezione tecnica e il complesso e strutturato pensiero musicale. Il suo Chopin (e non solo) non è mai stato melenso, sovraccaricato di espressione, fraseggio, ritardi. Puro, rispettoso del segno, capace di un inspiegabile legato tra i suoni, quelli melodici e quelli armonici. Proprio queste caratteristiche hanno diviso il pubblico: da un lato gli ammiratori più convinti; dall’altro quelli che ritenevano il suo modo di fare musica algido, distaccato, senza un vero coinvolgimento. Accuse mosse da persone che oggi ammirano le tante smorfie di Lang Lang, i vestiti della Wang e la lunga serie di pianisti la cui velocità digitale è inversamente proporzionale al pensiero musicale.

 

E’ vero, nel corso della sua vita Pollini è stato divisivo perché capace di un pensiero forte, documentato e proposto senza mezzi termini. Se ne è sempre assunto la responsabilità non cercando l’unanimità. Chi scrive non ha mai condiviso le sue idee politiche proposte in taluni recital anche con discorsi pre e post concerto. Questo non toglie nulla al dono magnifico della sua arte. Ha diviso pubblico e critica, anche in America, proponendo spesso programmi con opere di Boulez e Nono; i“Klavierstücke” di Stockhausen insieme alla Sonata “Hammerklavier”di Beethoven e alle Variazioni “Diabelli” per sottolineare che entrambi i compositori erano visionari che spingevano verso nuovi regni del pianoforte.

 

Negli ultimi anni Pollini si è esibito ma con meno frequenza. Quella di continuare con i recital è stata una scelta difficile perché le esecuzioni erano spesso tormentate dai vuoti di memoria e da una mano che non rispondeva più come avrebbe dovuto. Pur suonando un repertorio a lui noto e cucito su misura si avvertiva sempre la possibilità di una caduta. Ma forse anche questo è stato un regalo che Pollini ha voluto fare a tutti noi. Mostrare la sua fragilità, enorme, come il suo talento. Insegnarci che il giudizio sull’artista, l’opera e la persona, non può essere frutto di un solo momento ma di una sorta di condivisione che si prolunga nel tempo. Ci ha sbattuto in faccia il senso della musica anche quando il risultato meramente digitale non è al massimo livello. Il pubblico l’ha compreso ed è sempre stato benevolo, accogliendolo con lunghi applausi. Adesso non c’è più. A tante sue domande, lotte, dubbi musicali e ideali troverà risposta. Noi saremo un attimo più in silenzio. Forse questo è un ultimo dono che il Maestro ci ha fatto.

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