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Rush Tour

Sfacciati Måneskin: cantare (bene) “Don't look back in anger” a casa degli Oasis

Stefano Pistolini

Alla conquista di Manchester e oltre. La rock band con il suo tour ha raggiunto cifre record non solo nei nostri stadi, ma anche ai quattro angoli del mondo 

Manchester non è una città monoteista. Hanno diverse divinità da adorare e in cima all’Olimpo locale, tra il Manchester United e il City, ci sono gli Oasis, sempre benedetti dal popolo mancuniano, perché lo descrivono, lo raccontano e lo rappresentano, con tutto il loro inossidabile spirito dell’a chi tocca nun se ingrugna. Non sfiorate nemmeno gli Oasis, quando siete in città, a meno che non abbiate la faccia di bronzo dei Måneskin, la band che ormai tutto il mondo ci invidia, anche se noi qua continuiamo a fingere di ignorarlo, perché nessuno è profeta in patria.

La prima notizia è che in quella città del nord dell’Inghilterra si è concluso il tour di “Rush” dei Måneskin, quello dell’effettiva consacrazione internazionale, con cifre record non soltanto nei nostri stadi, ma ai quattro angoli del mondo, compreso, chessò, il Madison Square Garden. Un’impresa passata abbastanza sotto silenzio, perché è un fatto che la stampa italiana, specializzata o generalista, si è sempre dimostrata piuttosto avara d’attenzioni verso questa band capace di fare quello che non è riuscito a nessuno prima di lei, roba da far impallidire perfino “Mister Volare” Domenico Modugno, inclusi i trascorsi tentativi dei nostri beniamini all’estero, Pausini e Ramazzotti, Pfm e Tiziano Ferro. Decollando dal basso, ovvero dalla squadra di Manuel Agnelli a “X-Factor”, i Måneskin hanno messo in atto la sistematica scalata alla conquista del mondo, culminata con il recente riconoscimento di “Migliore Rock Band” agli Mtv Video Music Awards europei.

Da noi, intanto, più che altro si dibatteva, coi soliti toni acidi dei social, sull’“è vera gloria” della band, sulle effettive capacità strumentali dei suoi membri e soprattutto sull’uso del citazionismo di cui ha sempre fatto apertamente largo uso. Perché, in effetti, lanciare un progetto di questo genere e sostenerlo allorché il gioco si fa serio e c’è la necessità di dimostrarsi all’altezza delle aspettative in un genere che ha scritto molti anni fa le sue ultime pagine innovative e che da allora vive di ripetizione e celebrazione, non è facile. Si tratta di districarsi tra i rischi dell’imitazione e le ombre dei titani, con in dotazione quei passaporti italiani che non aiutano. Ma qui, sorprendendo molti dei più scettici, i Måneskin hanno estratto il coniglio dal cilindro, dimostrandosi all’altezza della sfida: il concerto romano allo Stadio Olimpico dello scorso giugno ne è stata una dimostrazione: loro continuavano a sembrare quattro ragazzini capitati per caso su quel palcoscenico sterminato, fin troppo acchittati e innaffiati da quell’indecente pioggia di luci, eppure proprio quell’essere sfrontati mingherlini al cospetto del golem, funzionava, dava allo show una delicatezza e al tempo stesso una scossa di energia, sensazioni infrequenti quando si parla di musica per arene.

E negli spettacoli di questo tour i Måneskin hanno mostrato proprio la capacità di sopravvivere alla questione del ritardo storico con cui esistono rispetto a ciò che suonano e la possibilità di beneficiare delle tecniche di riuso del sound e di alcuni rituali del rock sotto forma di una reinterpretazione da iscriversi all’avvento – da più parti strombazzato – di un nuovo post-modernismo. Ma torniamo a Manchester, qualche sera fa, alla AO Arena. Con ironia, sfacciataggine e progetto, a un certo punto Damiano David, vocalist del gruppo e il chitarrista Thomas Raggi, si sono isolati su un palchetto periferico e, dopo aver pronunciato parole di omaggio alla città che aveva prodotto un bel po’ di musicisti che loro portano nel cuore, si sono concessi il gesto eretico e hanno intonato una versione acustica di “Don’t Look Back in Anger”, inno per antonomasia degli Oasis, la band che diverse generazioni di abitanti di Manchester adorano in quanto fatta di gente come loro, nemmeno fossero stati sorteggiati a caso i fratelli Gallagher e compagni.

Guardando su YouTube il video dell’esecuzione, si percepisce l’istante in cui, ai primi accordi della chitarra, l’intera platea riconosce il pezzo e si pone la fatidica domanda: come cacchio osano questi italianuzzi suonare la nostra musica? La scommessa è audace e racchiude buona parte del senso dei Måneskin e del loro sfacciato fascino. Poi, quando Damiano intona (bene) i primi versi del pezzo, l’atmosfera di colpo si scioglie, i telefonini accendono l’occhio luminoso cominciando a oscillare e il coro collettivo si unisce a celebrare la liturgia. Un altro colpo è andato a segno: i Måneskin hanno conquistato Manchester prendendola per il cuore e lo stomaco. E così continua la magia del gruppo che per noi è difficile amare ed è anche complicato stimare. Con un po’ di dispiacere, a loro in fondo non importerà granché: hanno un mondo che li adora, giudicandoli supercool, un’industria che li corteggia e un futuro luminoso. Strano che sia toccato a loro ma è proprio così. Sono i capricci dello show business, un rompicapo di cui nessuno a mai scardinato l’arcano.
 

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