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La divina dei due mondi

Cent'anni di Maria Callas. Storia di una voce ineguagliata

Stefano Picciano

La grandiosa tournée dall’America all’Italia per celebrare la figura della diva e conoscerla meglio sul versante musicale, Anche grazie a testi creati per l’occasione

Nella solitudine della sua elegante dimora in Avenue George Mandel, a Parigi, trascorse quegli ultimi anni in compagnia dei suoi domestici, lontana dai riflettori che l’avevano tenuta al centro del mondo teatrale per più di vent’anni. Aveva scelto la capitale francese come ultimo approdo di un viaggio che in Grecia, America e Italia aveva trovato i suoi porti più importanti. Oggi un’iniziativa di affascinante ampiezza si appresta a celebrarne il centenario: sono innumerevoli gli artisti che prenderanno parte a “Callas 100”, il prestigioso evento di respiro internazionale che avrà luogo in occasione dei cento anni dalla nascita di Maria Callas. Prodotto dalla ForTune Music & Shows in collaborazione con Musart di Firenze, DuePunti Eventi di Vicenza, TAM Teatro Arcimboldi di Milano, si compone di una tournée con tappe a New York, Vienna, Praga e ben quattro date italiane: il prossimo 23 luglio a Firenze, il 6 settembre a Taranto, il 9 settembre a Vicenza e il 28 settembre a Milano. “La celebrazione del centenario di Maria Callas – ha sottolineato il produttore del progetto Davide Cicchetti – viene realizzata attraverso un format semplice ma basato sui valori dell’eccellenza artistica”. Un progetto volto a ripercorrere la figura della diva e approfondirla sul versante musicale ma anche, attraverso testi creati per l’occasione – letti, nelle date italiane, da Laura Morante –  su quello umano. Per celebrarne la grandezza, manifesta e insieme inafferrabile, quasi a voler approssimarsi il più possibile alla figura dell’artista, cogliere la sua identità, comprendere l’eredità di una figura la cui storia, travagliata e gloriosa, merita di essere ripercorsa. 

Il primo allontanamento da casa era stato, paradossalmente, un ritorno. Nel 1937, dopo l’infanzia trascorsa negli Stati Uniti, la giovane Maria aveva preso il mare verso la Grecia dei suoi genitori, dei suoi avi; una terra che dovette apparirle, allora, come un luogo mai visto eppure in qualche modo già custodito dentro di sé: nel suo animo, nella sua percezione delle cose. Solo quattordicenne, Maria Callas compiva verso casa il suo nóstos forse presentendo che – come la tradizione greca ci insegna – ogni viaggio è sempre un ritorno verso sé stessi. Lì venne affidata alla celebre Elvira de Hidalgo la quale, sorpresa dalle doti della giovane, con entusiasmo la prese nella sua classe: “Era sempre la prima ad arrivare a lezione e l’ultima ad andare via, perché si fermava ad ascoltare anche le lezioni degli altri studenti”, avrebbe raccontato. Ecco allora una determinazione piena di giovanile baldanza e desiderio di apprendere, che portò la ragazza a condurre una quotidianità intessuta di studio inesausto, analisi delle partiture, lunghe sessioni di esercizi e continua ricerca sulla vocalità: “Voglio ottenere il meglio in tutto. Voglio che la mia arte sia insuperabile”, avrebbe scritto qualche anno più tardi. David Lelait-Helo, autore di una sua biografia (Maria Callas, Lindau, 2009), parla in proposito di “un desiderio ardente di migliorare”, e accenna all’inclinazione ad esigere sempre il massimo da sé stessa, “mettendo costantemente in dubbio la propria abilità artistica. La sua ricerca di perfezione non aveva limiti”. 

Il debutto, al Teatro Olympia di Atene, avviene il 2 aprile 1939, con Cavalleria Rusticana di Mascagni, a pochi mesi dall’esplosione degli eventi bellici che avrebbero accompagnato i suoi esordi artistici. Seguono vari successi in patria, ma è qualche anno più tardi che, all’arrivo in Italia, la sua carriera riceve l’abbrivio decisivo. E’ il 1947 e Maria si reca a Verona per inaugurare la nuova stagione dell’Arena con La Gioconda di Ponchielli. Nella città veneta incontra il direttore Tullio Serafin, che avrebbe riconosciuto in lei doti senza pari, e il ricco imprenditore Giovanni Battista Meneghini il quale, divenendone poi marito, si sarebbe dedicato per più di un decennio alla gestione della sua carriera. Il 30 dicembre di quell’anno la Callas debutta anche a Venezia, al Teatro La Fenice, con Tristano e Isotta, e l’anno seguente al Maggio Musicale Fiorentino è Norma, parte che sarebbe stata inscindibilmente legata alla sua figura d’artista lungo tutta la carriera. Vari scritti biografici riportano un aneddoto curioso di quei feraci anni, ricordando come il maestro Serafin le propose di accettare la parte di Elvira ne I Puritani di Bellini nel medesimo periodo in cui faceva fronte all’impegno di essere Brunilde ne La Valchiria wagneriana; follia unanimemente riconoscibile, dato il diverso carattere dei ruoli. Ne avrebbe riferito lei stessa, molti anni dopo: “Io pensai… (…) se lui dice che si può fare, devo farlo. Allora dissi: ‘Proverò a farlo, non le garantisco altro’”. Nonostante l’improba mole di lavoro (fu in quel periodo che, ancora scarsa la familiarità con la lingua italiana, anziché “Sono vergin vezzosa” cantò “Sono vergin viziosa”) e i pochissimi giorni per studiare la parte, il successo fu flagrante. Lelait-Helo commenta: “Dopo la produzione de I Puritani non si parlò più della Callas senza fare riferimento a quella folle impresa. Stava nascendo la sua leggenda”. Nel 1950 Maria debutta, con Aida di Giuseppe Verdi, presso quell’arena cimentosa e spietata che è il Teatro alla Scala, per il quale pure non aveva mostrato alcuna soggezione (“La Scala è un gran teatro, ma io sono miope e per me tutti i teatri sono uguali”).

Di aneddoti e note di colore la sua carriera è piena. Come la celeberrima rivalità con Renata Tebaldi, a partire dall’incidente occorso nel 1951 mentre entrambe erano in scena a Rio de Janeiro: l’italiana, lusingata dagli applausi interminabili, concesse al pubblico un bis non preventivato, finendo per prevalere sulla collega che, furiosa, le indirizzava saette immaginarie dal retroscena. Il 1951 vide poi la Callas a Firenze con La Traviata, il 1952 la riporta alla Scala con Norma, mentre – tra innumerevoli altri eventi – nel 1953 c’è la sua prima Medea al Teatro Comunale di Firenze (“Come al solito avevo dovuto studiarmi la parte in otto giorni (…): l’entusiasmo che suscitai – fu una serata davvero indimenticabile – mi stupì e mi inorgoglì”). Al 1955 risale la collaborazione con Franco Zeffirelli, che partecipa all’allestimento de Il Turco in Italia di Rossini alla Scala. In platea è seduto Eugenio Montale, che annota: “Il pubblico ha sentito di esser di fronte a un’interpretazione studiata in ogni particolare”. Nel maggio dello stesso anno la Callas è nuovamente alla Scala per La Traviata allestita da Luchino Visconti, il quale ne scrive: “Tutte le Traviate che verranno (…) avranno un po’ della Traviata di Maria. (…) Le Violette future saranno Violetta-Maria. E’ fatale in arte quando qualcuno insegna qualcosa agli altri. Maria ha insegnato”. Sono questi anni a costituire il culmine di una carriera in cui i successi, ancorché non privi di disavventure e imprevisti, si susseguono l’un l’altro, vedendo la Callas vestire a più riprese i panni di Norma, Violetta, Tosca, Medea e tante altre, per interpretazioni che si svelavano ogni volta come qualcosa di nuovo: come più d’un osservatore ha notato, alcuni personaggi parevano crescere e mutare, nel corso degli anni, insieme a lei che li riportava in vita. 

La meraviglia per le caratteristiche senza eguali della sua voce sarebbe stata un fattore costante, in particolare per quella specialissima multiformità che, osservata già dalle sue prime maestre, determinò la sua più profonda originalità. Maria Callas era ciò che il grande Antonino Votto definì “un complesso artistico” nel quale il registro da soprano leggero conviveva (bando a ogni definizione che ciascuna cantante presto o tardi accetta su di sé) con un altro registro capace di farla trovare in perfetto agio anche sulle note più gravi e corpose, quelle pertinenti al soprano drammatico; ecco, quindi, riemergere dal passato la definizione di soprano drammatico di agilità. Era una ricchezza, tuttavia, che andava a discapito dell’omogeneità timbrica di quella che – sempre in bilico tra ammirazione e critiche – Tullio Serafin avrebbe con tono affettuoso definito “una grande vociaccia”. Persino l’ormai anziano Toscanini espresse il desiderio di ascoltarla e – come racconta Marco Beghelli – “la convocò nella casa milanese per sentirla cantare Macbeth: aveva un progetto ambizioso, (…) che solo l’età avanzata impedì; ma era proprio quella la voce ‘ambigua’ che cercava”. Ma a questo articolato carattere vocale bisogna affiancare le eccezionali doti teatrali o, meglio, quella intimità del sentire (come un giorno ebbe a definirla il tenore Giuseppe Di Stefano) che – come nella catarsi del teatro greco che lei forse portava nell’anima – la conduceva ad un’immedesimazione totalizzante nelle passioni messe in scena, a una identificazione tale che la sua persona pareva infine coincidere con quella dei personaggi interpretati. In essi lei sembrava infondere tutto il suo personale dolore. Era un’immersione nel sentire che la portava in qualche modo a sparire e d’un tratto individuarsi in Norma, Tosca, Violetta – in un abbandono di sé non dissimile da quello che visse nelle sue travagliate relazioni amorose – attraverso la drammaticità del gesto e della parola. Nella parola, perché – come ebbe ad affermare Herbert von Karajan – “la drammaticità di una persona non dipende dalla forza con la quale può urlare; la drammaticità è sempre l’effetto di parole ben pronunciate”; e nel gesto, riguardo al quale lei stessa confidò: “I miei gesti non sono mai premeditati. Sono legati ai colleghi, alla musica, al modo in cui mi sono mossa prima: ogni gesto nasce dall’altro (…). Devono essere sempre il prodotto autentico del momento”. 
La presenza scenica mutò nuovamente negli anni in cui – con l’improvviso dimagrimento, secondo molti non privo di conseguenze sulla voce – si venne a determinare una percezione nuova della sua immagine, d’un tratto liliale, nella sua alcinesca bellezza e come tale, in seguito, trattata dai rotocalchi scandalistici che nell’ultima parte del suo itinerario non cessavano di assillare una diva continuamente pressata da fotoreporter avidi di cogliere nuovi dettagli della sua travagliata storia personale. Lei stessa, nella fase in cui l’immenso cielo della sua carriera sembrò tingersi dei colori del tramonto, si rese conto che la sua voce non era più quella di un tempo e si trovò a fare i conti con imprevisti e difficoltà. Come quella volta in cui, nel gennaio del 1958, fu costretta a sospendere dopo il primo atto la rappresentazione di Norma all’Opera di Roma, alla presenza del presidente della Repubblica, con lungo strascico di scandalo. “Cosa posso dire a mia discolpa? – avrebbe commentato – Avevo detto che non mi sentivo bene, e avevo chiesto chi avrebbe potuto sostituirmi, ma mi era stato risposto: ‘Nessuno può sostituire la Callas’”.

Nel periodo seguente abbandona gradualmente il teatro limitandosi a tenere concerti antologici. Al Teatro alla Scala, di cui era stata regina per diversi anni, cantò per l’ultima volta l’11 dicembre 1961, e in quella Medea si individua l’esecuzione più alta, forse, di sempre. Dino Buzzati, presente in platea, ci lasciò un’istantanea della figura di lei: “Era bellissima. A un certo punto (…) si gettò a terra lunga distesa, così rimanendo immobile. (…) Non ho mai visto nessuna donna distesa a terra con tanto stile ed eleganza”. In quel periodo la Callas scrive alcune lettere (“Non sono così forte; tutto il contrario di ciò che si dice di me; (…) Vorrei essere forte come dieci anni fa”), manifestando in qualche modo il suo sconforto, le incertezze sul futuro, lo stato d’animo su cui dovevano gravare le vicissitudini affettive che caratterizzarono quei difficili anni. Si ritirò infine a Parigi e le occasioni in cui allontanarsi da casa divennero poche; ma non volle declinare l’invito a tenere alcune masterclass negli Stati Uniti, né deludere l’insistenza del suo amico Giuseppe Di Stefano, il quale la pregò di accompagnarlo in alcune ultime tournée che rimangono alla storia come documenti preziosi e commoventi. Era la conclusione di un itinerario sviluppatosi in un connubio di glorie ineguagliate e silenziosa mestizia, di successi straripanti commisti a sotterranei dolori. E chissà quante volte, in quegli ultimi anni, avrà ripensato con nostalgia ai lontani tempi in cui – dopo un’infanzia segnata da incertezze – aveva preso il largo verso la bellezza del canto, tornando magari con l’immaginazione al 2 agosto 1923. Il giorno in cui un piroscafo proveniente dalla Grecia era giunto al porto di New York. A bordo vi erano Georgios Kalogeropoulos e la moglie, che all’arrivo nel Nuovo Mondo avrebbero modificato il loro cognome, di ostica pronuncia in terra americana, nella più semplice forma Callas. Non immaginavano certo, in quel frangente denso di affanni e speranze e preoccupazioni, che la piccola che lei portava in grembo, nata pochi mesi più tardi e chiamata Maria, sarebbe divenuta la cantante d’opera più discussa e ammirata della storia.

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