Foto Ansa

A Teatro

La divina che divide. Cecilia Bartoli ha incantato il mondo

Alberto Mattioli

Gli unici fischi le arrivarono dagli italiani refrattari al cambiamento. Al Festival di Pentecoste, Orfeo ed Euridice, interpretato dalla cantante lirica italiana più famosa del globo, è un successo. Cronache da Salisburgo

La prima del suo Orfeo ed Euridice, venerdì scorso al Festival di Pentecoste di Salisburgo, è finita con la ministra competente (non essendo in Italia, si può supporre che lo sia) la quale, congratulandosi in italiano fra piogge di fiori, l’ha nominata Kammersängerin, “cantante da camera”, titolo onorifico che evoca remote grandezze imperialregie e absburgiche e che la Repubblica austriaca ha conservato. La decorata è ovviamente SCNSD, alias Santa Cecilia Nostra Sempre Divina, insomma Cecilia Bartoli, la cantante lirica italiana più famosa al mondo, amatissima dalla maggioranza globalizzata che va all’opera, detestatissima da una minoranza rumorosa di quelli che ci vanno in Italia, e che noi devoti accreditiamo addirittura di poteri taumaturgici (voi ridete, ma a un altro Salisburgo – d’estate, però – mi guarì la storta rimediata sullo sconnesso acciottolato arcivescovile con la semplice imposizione delle mani nel foyer del Festspielhaus, in mezzo ai giapponesi che fotografavano all’impazzata…).

Dal 2012 la Santa, come appunto la chiamano i devoti di cui sopra, del Festival di Pentecoste è anche direttrice artistica. L’ha rilevato in uno stato di salute non troppo brillante e in dieci anni ne ha fatto un appuntamento imprescindibile, e non solo per i bartoliani di stretta osservanza: in quest’anno, il riempimento delle sale si è stabilizzato al 98 per cento, come dire che Cecilia ha fatto l’ennesimo tutto esaurito. Il cartellone 23 è stato tutto dedicato al mito di Orfeo, forse anche come citazione-celebrazione dell’Orfea direttrice. In due giorni e mezzo, quattro opere. Si è visto, appunto, il debutto della Bartoli nell’Orfeo di Gluck prima versione, dunque in italiano e con il protagonista mezzosoprano (un tempo castrato, ma si sa che per noiose fisime illuministe si è purtroppo smesso di operare i ragazzini per preservarne la voce). Però, e sono chicche assai chic, non nell’edizione viennese del 1762 bensì in quella revisionata dallo stesso Gluck a Parma sette anni dopo, per le infauste nozze del Borbone locale, Ferdinando, con Maria Amalia d’Absburgo, una delle innumerevoli figlie di Maria Teresa che furono altrettante disgrazie per i loro mariti, e che Gluck lo conosceva benissimo perché le aveva dato lezioni a Vienna. Il giorno dopo, sabato, al pomeriggio SCNSD ha ripreso la parte di Euridice nell’Anima del filosofo, cioè l’Orfeo secondo Haydn in forma di concerto; la sera, si è invece vista in quella scenica Orphée et Eurydice, cioè l’opera di Gluck infranciosata e revisionata per Parigi, con il protagonista che da castrato diventa haute-contre, la versione modello tragédie lyrique del tenore, qui un brillante e intenso Maxim Mironov. Infine, domenica mattina, senza Bartoli ma lo stesso magno cum gaudio,

 

L’Orfeo di Monteverdi “cantato” dalle marionette dei Colla (i cantanti erano in buca, protagonista un notevole Renato Dolcini). Ci sarebbe anche stata una schubertiade di nuovo con la Bartoli, che si è persa per vedere la nuova Aida di Michieletto a Monaco. E comunque non c’era solo lei: la signora ha l’accortezza di circondarsi non di mediocri, come fanno appunto i mediocri, ma di grandi artisti. Come Gianluca Capuano, un magnifico musicista che ha diretto assai bene il Gluck I, l’Haydn e il Monteverdi (anzi, quest’ultimo strepitosamente bene) o i Musiciens du Prince, l’eccellente orchestra monegasca “storicamente informata” di cui la Bartoli è direttrice artistica. Peccato solo per gli amabili resti della sua voce che Rolando Villazón ha incautamente esibito nell’Haydn. E poi: regia di Christof Loy per il Gluck I, regia  e coreografia di John Neumeier, niente meno, per il Gluck II, anche se alla fine lo spettacolo più bello che ho visto era quello dei Colla, perché ogni tanto fa piacere e anzi bisogna tornare bambini e spalancare la bocca dallo stupore davanti a queste marionette che rilanciano gli incanti barocchi, Orfeo con la sua brava lira, Caronte dagli occhi di brace, i pastori con le loro pecorelle arcadiche nell’aldiqua, i pipistrelli svolazzanti nell’aldilà dove Proserpina accarezza un draghetto da compagnia, Apollo sul suo carro dorato con i cavalli alati, e che meraviglia questo primo capolavoro dell’opera ancora bambina pure lei. Veniva in mente il cavalier Monti quando, nel relativo Sermone, descriveva così la mitologia: “Fu prima fantasia del mondo”. 

Chi l’avrebbe detto, però, quando Cecilia non era ancora “la Bartoli”. Romana, classe ’66 (da quando esiste Wikipedia l’età delle primedonne si può scrivere), figlia di cantanti lirici di origini romagnole, il che forse spiega l’estroversione e la bulimia del fare, ma sempre con il sorriso sulle labbra, debutto a nove anni come Pastorello nella Tosca, si affacciò nel gran mondo musicale nella maniera più curiosa: vincendo il teleconcorso di un varietà del sabato sera officiato da Pippo Baudo. Poco tempo dopo era già a cantare con un Karajan terminale e artista griffata Decca, di tutte le major discografiche quella che ha sempre avuto più fiuto per i cantanti (do you remember un certo Pavarotti? Esclusivista Decca pure lui). Personalmente, la ricordo poco più che ventenne debuttare Rosina in un Barbiere di Siviglia al Comunale di Modena in ottima compagnia, Leo Nucci, Rockwell Blake e Alfonso Antoniozzi (mica male, la provincia emiliana degli anni d’oro). Giovin principiante alla Gazzetta locale, le chiesi un’intervista senza confessarle che era la prima in assoluto che facevo e la scrissi con la sua penna perché la mia aveva subito fatto cilecca, sarà stata l’emozione. Il resto è storia dell’interpretazione degli ultimi trent’anni: collaborazioni con i più importanti direttori, e trasversali, diciamo da Harnoncourt a Barenboim, debutti in tutti i maggiori teatri ma con una predilezione per quelli europei perché ha paura di volare, più di dieci milioni di dischi venduti.

 

Attenzione, non con ’O sole mio ma con rarità vivaldiane, riscoperte barocche di autori anche minori o minimi ma sempre dimenticati, superchicche estratte dagli angoli più remoti del repertorio. E sempre con lanci clamorosi, almeno fino a quando il disco è esistito anche come oggetto fisico. Indimenticabile la presentazione di Sacrificium, l’album dedicato ai castrati, per la quale fu affittata la Reggia di Caserta con cena, concerto nel teatrino, fuochi d’artificio e “collazione”, si sarebbe detto nel Settecento, davanti alla grande fontana, tutto uno sfarzo, una féerie, una magnificenza. Una volta usciti quasi all’alba, si faceva fatica a non lanciare brioches ai passanti. 

Trionfo del marketing discografico e del marketting critico, insinuano i detrattori. Ma, a parte che un marketing che ti fa vendere dieci milioni di dischi meriterebbe il Nobel, non c’è nulla di male a pubblicizzarsi, purché il prodotto pubblicizzato sia buono. E poi per assurgere al rango di divo non bastano voce e tecnica, musicalità e carisma: bisogna anche arrivare al posto giusto e nel momento giusto. Caruso, per dire, diventò Caruso anche perché aveva la voce ideale per le rudimentali tecniche di incisione della sua epoca, il che gli permise di diventare la prima star “industriale” della storia dell’opera. Oltre ai suoi molti meriti, la Bartoli ha avuto la fortuna di intercettare la movida barocca quando, per esempio, le opere di Vivaldi hanno smesso di essere dei titoli sui manuali per diventare carne da palcoscenico: il che spiega il boom clamoroso del suo disco vivaldiano, con mezza Europa che si mise di colpo a canticchiare “Di due rai languir costante” sotto la doccia (pare che in Francia, dove la Bartolì l’adorano, si sia registrato un inspiegabile aumento del consumo domestico d’acqua calda). E allora lei fa benissimo a farsi immortalare in clamorosi servizi fotografici mentre si immerge nella fontana di Trevi come simil Anitona per il suo disco di rarità romane sei-settecentesche o avvolta negli zibellini da zarina per il disco dedicato agli operisti italiani in Russia o donna barbuta come Conchita Wurst per un ennesimo disco sugli evirati cantori, cui comunque la barba non cresceva (e che non la facevano nemmeno crescere ai loro ascoltatori, se è per questo). 

Canta anche bene, la Bartoli? La risposta è sì. Le celebri agilità “a macchinetta” sono una meraviglia, checché se ne dica, e la meraviglia, se non il fine, è una componente imprescindibile dell’estetica belcantistica. La voce è piccola, certo, ma che “non si senta” è una leggenda metropolitana, un sarchiapone operistico messo in giro da chi non la ama o non è mai andato ad ascoltarla: che non si sente lo dice chi non l’ha mai sentita. E del resto è stata applaudita al Met, che proprio piccolo non è, e ricordo perfettamente che al Grosses Festspielhaus, che è enorme, la sua Fiordiligi giungeva, se non forte, chiara, e con in buca non un’orchestrina barocca ma i Berliner.

 

La realtà è che questi sono accidenti, non sostanza, e la sostanza è che è una grandissima artista, diligente, autocritica e iperpreparata, prima ad arrivare alle prove e ultima ad andarsene, una secchiona che, dopo lo studio matto e disperatissimo, è anche capace di trasformare la teoria in pratica. Paradossalmente, è nel dominio della parola che va cercata la grandezza di Nostra Signora delle colorature, la parola scolpita, dominata, miniata, il Verbo fatto musica, per restare alle ultime interpretazioni, lo sconvolgente “Mi restano le lagrime” dell’Alcina di Händel a Salisburgo e poi al Maggio fiorentino (se ne scrisse, ancora commossi, anche sul giornale che tenete in mano) o, appunto, in questo Orfeo gluckiano, che di agilità spericolata non ne ha né punta né poca, ma era tutto risolto in un vero, autentico, recitar cantando (ecco, perché poi Santa Cecilia si ostini a non fare Monteverdi resta un mistero: sembra scritto per lei). Però anche quando la Bartoli ha affrontato un repertorio che sembrava assai lontano, come i Bellini di Sonnambula e, soprattutto, di Norma, i risultati sono stati probanti. Certo, non è la solita Norma, ma bisogna anche veder quando la solita Norma sia quella pensata da Bellini: molto poco, in verità. Ed evidentemente per il risultato conta anche il contesto: quella Norma andava ascoltata in un teatro piccolo, con un’orchestra, un direttore e dei partner accuratamente scelti e istruiti. 

 

Si spiega allora perché, se a qualcuno la Bartoli non piace, quel qualcuno viva e fischi in Italia. Perché, duole dirlo, c’è una parte di pubblico italiano che insiste a considerare l’opera il museo di sé stessa, e a identificare il bello con quello che ha già ascoltato. Questo canto apparentemente eterodosso e sicuramente innovativo (un futuro che, paradossalmente, è un ritorno al passato) lo sconcerta. Da qui alcune esperienze italiane della Bartoli il cui ricordo, forse, ancor l’offende. Tipo il famigerato concerto con Barenboim alla Scala nel 2012, ritorno in loco dopo diciannove anni di assenza, finito in una memorabile gazzarra, fazioni l’una contro l’altra armata a suon di improperi, buuu! e fischi fra i brava! e i diviiiina! delle melochecche (nota per i censori del pol. corr.: è una citazione da Arbasino) e lei che, apparentemente impassibile, bissò proprio il rondò della Cenerentola che aveva scatenato i “Povero Rossini!” e i “Torna a casa!”: come sventolare il drappo rosso davanti al toro. Cornuti a parte, sono quisquilie e pinzillacchere. Ma l’incomprensione del fenomeno Bartoli, che non è solo artistico e musicale ma anche mediatico e, oserei, sociologico, certifica quella per i cambiamenti del mondo dell’opera nel paese che pure l’ha inventata.

 

Lei, ovviamente, come scoglio immoto resta: magari non essere profetessa in patria le dispiace, ma è anche vero che ha altro e di meglio da fare. Attenta pianificatrice, pensa già al “dopo” e, pur continuando a cantare, molto e bene, organizza i passi successivi. Fra i quali c’è una carriera dirigenziale. Di Pentecoste e dei Musiciens du Prince si è detto; dal prossimo anno, sarà direttrice dell’Opéra di Montecarlo, un Palais Garnier più piccolo ma altrettanto fastoso, e in più con vista mare. A parte l’ammirazione per la bravura a scegliere sempre “piazze” dove gli sponsor non mancano, si è curiosi di vedere i programmi che deciderà. Se saranno come quelli dei suoi dischi e dei suoi concerti, studiatissimi e calibratissimi, coerenti e felici, il Principato diventerà una meta fissa per noi operoinomani e operoinomadi. Estote parati, dice il Vangelo (secondo Cecilia?).

Di più su questi argomenti: