l'opinione

Paolo Conte alla Scala ci può stare: contro la retorica del teatro come tempio

Alberto Mattioli

Milano non è Bayreuth. I confini fra musica “colta” e di consumo sono sempre stati labili e sempre più lo diventeranno. La replica alla lettera di Maranghi, che si è scagliato contro il concerto del cantautore il prossimo 19 febbraio

Sul Foglio di sabato scorso, Piero Maranghi si è scagliato contro il concerto di Paolo Conte previsto alla Scala il 19 prossimo venturo. Non per Conte, che anzi gli piace, ma per la Scala “profanata” da uno chansonnier. Gli ha risposto ieri Vittorio Sgarbi, dicendo in sostanza che Conte alla Scala può cantare perché piace al pubblico, criterio estetico che mi pare un po’ televisivo. Maranghi è un milanese davvero innamorato della Scala e che sa quel che dice, due caratteristiche che non sempre coincidono. Quindi la sua opinione è non solo rispettabile, ma autorevole. E tuttavia la retorica della Scala come tempio è non solo sbagliata, ma pericolosa.

  
Intanto, perché la Scala non è stata concepita per essere un tempio. Storicamente, ci si è sempre fatto di tutto e di più: si ballava, si mangiava, si beveva, si chiacchierava, si giocava d’azzardo, si faceva l’amore e si faceva politica. L’architettura stessa della Scala, come quella di tutti i teatri all’italiana, dimostra che il primo scopo per cui fu edificata non era quello di vedere uno spettacolo, ma di passarci piacevolmente una serata. I palchetti, l’abbondanza di ridotti, foyer, caffè e gallerie varie a questo servivano. L’idea del teatro come tempio nasce molto dopo: il Festspielhaus di Bayreuth viene inaugurato nel 1876, quando la Scala esisteva da poco meno di un secolo. La sala di Wagner è davvero l’anti Scala: serve per vedere l’opera e solo per questo, e infatti non c’è alcun ornamento né alcuno spazio destinato al cazzeggio (e le sedute sono volutamente scomodissime, così non si dorme). Della cultura che lo concepì Toscanini era figlio, e fece le famose riforme che sappiamo, il buio in sala, la “buca” orchestrale, il divieto di tenere il cappello per le signore e quello di concedere bis per i cantanti, eccetera. Ma, appunto, si tratta di un’idea affatto estranea a quella della tradizione italiana, in cui il teatro è soprattutto il luogo della sociabilità, un incrocio fra la piazza, il salotto e il casinò (e talvolta il casino). Ed è legata a un’epoca e a un’estetica ben definite. Infatti, in tempi più vicini a noi, l’antistorica riproposizione alla Scala del modello toscaniniano del demiurgo primus senza pares non si è chiusa con un bilancio brillante.

  
Naturalmente, nessuno vuole rimettersi a giocare a carte nei palchi e mi irrito anch’io quando mi ritrovo accerchiato da stranieri selfanti (senza i quali, tuttavia, si chiude bottega). Ma la vera ragione per cui parlare della Scala come di un tempio è sbagliata è perché ribadisce l’idea autoreferenziale e alla fine autolesionista che sia una specie di isola di bellezza e di civiltà circondata dai barbari come un villaggio di Asterix al contrario: come se il mondo là fuori fosse sempre una minaccia e mai un’opportunità. I confini fra musica “colta” e di consumo sono sempre stati labili e sempre più lo diventeranno. Nel 1874 venne a suonare alla Scala i suoi valzer Johann Strauss, e dell’epoca non esisteva musica più d’intrattenimento; nel 2009, il balletto ha danzato sulle hit dei Pink Floyd, e senza che nessuno facesse un plissé. La stessa opera italiana, alla fine, è un pop che ce l’ha fatta. Alla Scala si fa o si dovrebbe fare teatro, e il teatro da due millenni e mezzo non è altro che confronto e riflessione con la contemporaneità. Questo non vuol dire che da domani liberi tutti, e la Scala diventa un contenitore buono per tutti i contenuti: l’unico discrimine dovrebbe essere la qualità artistica. I Vespri siciliani attualmente in scena, tradotti, tagliati e per di più con una regia ridicola, “profanano” la Scala (e Verdi) molto più di quanto potrebbe fare qualsiasi Paolo Conte.
 

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