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La lettera

Evviva Paolo Conte alla Scala. Lo vuole il pubblico, e anch'io ci sarò

Vittorio Sgarbi

“Ci sono forse generi degni e generi indegni? Un ammiratissimo musicista contemporaneo non dissacra il grande teatro milanese”. La risposta del sottosegretario alla Cultura dopo la lettera pubblicata dal Foglio

Qual è il limite? Cosa e chi può entrare alla Scala? Leggere la lettera di un contemporaneo, colto, elegante, con cui ho condiviso diverse posizioni, come Piero Maranghi, mi sconcerta. Riconoscere il merito di Paolo Conte, dichiarare di amarlo, andare a tutti i suoi concerti nei luoghi ritenuti pertinenti dovrebbe essere sufficiente a superare ogni contraddizione rispetto a norme non scritte, ma che dovrebbero essere stabilite solo dalla qualità dell’artista e dal suo valore musicale. Chi penserebbe di ritenere Morandi indegno di stare a fianco di Giotto, solo per ragioni cronologiche? O Burri a Caravaggio (che convivono da 45 anni a Capodimonte)? 

 

La Scala è un Tempio in cui non può essere ammessa musica contemporanea, se non noiosa. Berio sì, Conte no. Leggendo Maranghi mi veniva in mente il resoconto di una seduta dell’Accademia Olimpica di Vicenza, raccontata da Goethe nel suo “Viaggio in Italia”: “Questa sera sono stato a una radunanza dell’Accademia Olimpica. Trovavansi radunati in una grande sala, vicina al teatro del Palladio, convenientemente illuminata, il capitano grande, molti nobili, parecchi membri del clero, e un pubblico di persone colte, in complesso cinquecento persone all’incirca. La quistione posta in discussione dal presidente per la seduta di questa sera era la seguente: quale avesse giovato maggiormente alle arti belle, l’imaginazione, ovvero l’imitazione? Il tema era abbastanza felice, imperocché, volendosi addentrare in quella quistione, e svolgerla sotto tutti i suoi aspetti, vi sarebbe materia a discorrere per degli anni; e i signori accademici la trattarono a dovere, leggendo molte prose, e molti versi, fra cui vi erano parecchi scritti pregevoli. Il pubblico prendeva viva parte alle letture, applaudiva, batteva le mani, sorrideva. Quanto non è del resto piacevole il potere comparire per tal guisa davanti ai propri concittadini. Ognuno dà per iscritto quanto sa di meglio; ognuno si adagia nel suo cantuccio, ed ivi rode quello che può. Il nome del Palladio siccome era naturale, veniva ricordato ad ogni momento, sia che si trattasse d’imaginazione ovvero d’imitazione. In complesso poi, incontrarono maggiore approvazione coloro i quali parlarono in favore dell’imaginazione, esprimendo pensieri e idee più facilmente accessibili alla generalità degli uomini. E una volta il pubblico applaudì nel modo il più clamoroso un sofisma del tutto volgare, mentre lasciò passare inosservate, senza comprenderle, cose ottime, dette in favore dell’imaginazione. In fin del conto rimasi soddisfatto di avere assistito a quella seduta, e sovra tutto mi fece piacere sommo lo scorgere venerato e onorato, tuttora dopo tanti anni, il nome del Palladio, nella sua città natia”.

 

Si intende l’ironia di Goethe fra azzeccagarbugli eleganti e virtuosi su un argomento inesistente. Tale mi pare il ragionamento di Maranghi. Cosa può ostare all’ottima idea del soprintendente Meyer di invitare un classico come Conte alla Scala? C’è un genere degno e un genere indegno? Un’epoca giusta e un’epoca sbagliata? Dante sì, Montale no? E se Montale sì, alla fine (premio Nobel come Bob Dylan) sarà utile ricordare che Conte ebbe il premio Montale per la qualità letteraria delle sue canzoni. E per Gaber e Battiato e De André, niente Scala, mai? Gli  argomenti di Maranghi sono inconsistenti nella sostanza e resistenti nella forma, in nome di princìpi inesistenti, smentiti dalla dichiarata ammirazione per Conte. Già la premessa è equivoca: “Il Teatro alla Scala è la mia casa, un luogo dove, nella mia vita, ho fatto tutto, davvero tutto. Ma il 19 febbraio non verrò a sentirLa. Mi rivolgo a Paolo Conte e non alla dirigenza del Teatro per una ragione molto semplice, loro non hanno gli strumenti per comprendere, Lei certamente sì.

 

Spiego il mio pensiero. Il Suo concerto è uno schiaffo alla storia della Scala; costituisce un precedente assai pericoloso; non dà nulla al Teatro da cui invece riceve moltissimo; è culturalmente un concerto ‘antipatico ed elitario’”. Sembra piuttosto lui a non avere gli strumenti per comprendere, non essendoci logica, né musicale né letteraria, per conciliare la sua ostilità e la sua ammirazione: “Amo Paolo Conte più di tutti i musicisti di cui sopra – con l’esclusione di Barenboim – ma non può bastare. Chi stabilisce il valore artistico Suo rispetto a quello di altri colleghi? Il sovrintendente-direttore artistico Dominique Meyer. Qui la cosa si fa dolorosa poiché questo signore è manifestamente sprovvisto di cultura scaligera. A proposito, caro Conte, questa doppia carica in capo a un sol uomo – sovrintendente-direttore artistico – di stampo franco-germanico, inaugurata proprio alla Scala nel 2005 e poi scimmiottata da molti altri, in Italia si è rivelata una aberrazione inaudita che ha finito per deformare e distruggere tradizioni secolari, con buona pace di sindaci e amministratori, al meglio inconsapevoli, al peggio interessati ad abbandonare l’Opera a un destino di secondarietà rispetto a selfie e sfilate. Sovrintendenti-direttori artistici, quasi sempre stranieri, che ci raccontano la storiella dell’internazionalizzazione (si legge omologazione) della Scala, non capendo che il nostro Teatro è stato per oltre due secoli il più internazionale dell’universo proprio per la Sua cifra unica e inimitabile”.

 

E qui la polemica si sposta al soprintendente, ma è immotivata, non convincente, neppure per l’argomento del commissariamento del Soprintendente straniero, che pure entra in una polemica aperta da me. Ma qui, straniero o italiano, il soprintendente ha fatto bene: ha pesato e riconosciuto il valore di Conte e lo ha ammesso alla Scala. Anche a me, come a Meyer, non pare evidente che l’ammissione di un ammiratissimo musicista contemporaneo dissacri la Scala. E’ una diversa valutazione estetica, subordinata alla sacralità del luogo. Keith Jarrett (io c’ero) sì e Conte no? Con queste motivazioni: “Ancora, adorato e splendido Paolo Conte, Lei alla Scala, la mia è solo una constatazione, non dà nulla. Porta pubblico giovane? NO. Porta un pubblico che resterà attaccato alla Scala? NO. La Scala ha bisogno di Paolo Conte o di Mina o Dylan per essere quello che è (ormai sarebbe il caso di dire che era)? NO! E Lei cosa riceve? Tantissimo. Lei può esibirsi, primo “non classico” nella storia, sul palcoscenico che fu di Rossini e Verdi, di De Sabata e Callas, di Gavazzeni e Visconti, di Pavarotti e Abbado, di Strehler e Zeffirelli. Non mi interessa sapere se Lei percepisca anche un cachet, immagino però che facilmente ci sarà un cd o dvd “Paolo Conte alla Scala”, e mi chiedo se serva al Teatro, ben conoscendo la risposta. E poi l’antipatia dell’operazione, quella sera ci saranno tutti quelli che di solito vengono al 7 dicembre a farsi i selfie, per poi inabissarsi per tutto il resto della stagione fino al successivo 7 dicembre e da ora, dopo il 19 febbraio, fino al prossimo Paolo Conte che il prepotente di turno imporrà all’ennesimo sovrintendente-direttore artistico”. E chi l’avrebbe imposto se non il pubblico che lo ama? La Meloni? Sala? Sangiuliano? Io il 19 ci sarò.

Vittorio Sgarbi è sottosegretario alla Cultura

 

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