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a lezione di musica

Italian Opera Academy. Torna la scuola di Riccardo Muti

Stefano Picciano

Lezione-concerto, prove aperte al pubblico e gran finale: dal 2 al 15 dicembre, al Teatro Alighieri di Ravenna avrà luogo la nuova edizione dell'iniziativa ideata dal celebre direttore d'orchestra

Un frammento posto sul pentagramma da Giuseppe Verdi in occasione della scomparsa di Rossini avrebbe costituito, alcuni anni più tardi, il nucleo originale – benché collocato alla fine della partitura – attorno a cui scrivere un’intera Messa da Requiem, cui l’autore mise mano nel maggio 1873 alla notizia della scomparsa di Alessandro Manzoni: “E’ – scrisse Verdi – un impulso o, dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge a onorare, per quanto posso, questo grande che ho tanto stimato come scrittore e tanto venerato come uomo”.

Un anno dopo, in occasione del primo anniversario, l’intera partitura fu eseguita presso la chiesa di San Marco a Milano, sotto la direzione dell’autore, e ripetuta nei giorni seguenti al Teatro alla Scala riscuoteva i più alti entusiasmi di un pubblico che si abbandonava ad applausi scroscianti persino durante l’esecuzione. Pagina caratterizzata da un trattamento marcatamente drammatico – lo stile a Verdi più consueto – del testo sacro (“più musica da teatro, che da chiesa”, osservarono infatti alcuni critici) il Requiem fu scritto in un’epoca in cui il compositore parve definire la sua lontananza dalla fede ma al contempo esprimere, anche attraverso quest’opera, il radicale bisogno di una risposta adeguata agli interrogativi ultimi dell’esistenza. Interrogativi che risuonano come un grido in questa partitura monumentale e struggente, che egli stesso dimostrò di non aver concepito per una destinazione teatrale: “Sarà facile finché vorrete, ma vi sono intendimenti di espressione, e soprattutto di carattere che non sono facili. Voi capirete meglio di me che non bisogna cantare questa Messa come si canta un’opera, e quindi i coloriti che possono essere buoni al Teatro, non mi accontenteranno affatto”. 

Il Requiem di Verdi è l’opera attorno a cui si svolgerà – dal 2 al 15 dicembre al Teatro Alighieri di Ravenna – la nuova edizione della Italian Opera Academy di Riccardo Muti, con l’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini”. Un percorso che, nella sua struttura, pare sintetizzare in modo affascinante la duplice preoccupazione che da tempo muove l’ideatore di questo progetto: da una parte il desiderio, più volte esplicitato da Muti, di “comunicare agli altri, in particolare ai ragazzi che uscivano dai conservatori, la mia esperienza”; dall’altro l’esigenza di offrire al pubblico la possibilità di frequentare la bellezza che la nostra storia custodisce, “perché l’arte e la cultura tornino a essere il nostro pane quotidiano”. Denso di significato, dunque, appare l’invito a partecipare a queste prove aperte, con l’insolita possibilità di accedervi portati per mano da una guida quanto mai autorevole, e di entrare in tal modo nel vivo di quel mistero che è il rapporto tra il direttore e l’orchestra, quello spazio delicatissimo in cui il primo, pur senza produrre da sé stesso alcun suono, chiama all’essere la musica che uscirà dalle mani di chi gli sta innanzi, con il compito – come ebbe a dire lo stesso Muti – di “tirar fuori ciò che non è scritto eseguendo rigorosamente ciò che è scritto”. 

In un contesto in cui la dimensione estetica perde considerazione, in un’epoca in cui sempre di più il criterio con cui dare valore alle cose pare essere l’utile (“il grande idolo del nostro tempo”, osservò Friedrich Schiller) e non il bello, in una società in cui non è più scontato cogliere l’importanza che la bellezza ha per l’educazione dei giovani, Muti ribadisce apertis verbis il concetto: “Se togliamo ai nostri figli la possibilità di avvicinarsi all’arte, alla poesia, alla bellezza, in una sola parola alla cultura, siamo destinati a un futuro di gente superficiale (…). L’Europa ha alle spalle una storia importantissima (…). Ora non può dimenticarlo: basterebbe che i governi togliessero un po’ di denaro alle cose superflue e lo destinassero prima all’educazione, poi all’educazione e quindi all’educazione”.