(foto d'archivio Ansa)

L'album che anticipò la fine di quel brivido memorabile che furono gli Oasis

Stefano Pistolini

Sono passati 25 anni dall'uscita di "Be Here No", che chiuse la stagione del britpop. Un disco perduto in una vacua contempolazione, che non resse al peso delle aspettive

Possiamo pure fingere attonita sorpresa, scoprendo che sono passati 25 anni da quando l’album più atteso dell’allora band più famosa del mondo, “Be Here Now” degli Oasis, raggiungeva i negozi. Un quarto di secolo, con tutto l’armamentario che contiene. I megastore in pieno agosto aprirono alle 7 di mattina per far entrare le code di fan palpitanti a caccia di quel disco: cosa diavolo stava succedendo? Ha un suo interesse domandarselo, e quindi ragionare su come appaiano quelle cose viste a distanza e, ovviamente, come su come siamo cambiati noi.  Per celebrare il venticinquennale di “Be Here Now”, terzo album in studio degli Oasis, prodotto da Owen Morris e Noel Gallagher e registrato in buona parte ad Abbey Road, ne esce ora una versione rimasterizzata su doppio vinile argentato, su cd e perfino su musicassetta, con dovizia di corredo agiografico. Oggetti affascinanti, calzanti testimonianze degli ultimi eccessi del rock’n’roll inglese, prima della grande secca di fine millennio. “Be Here Now”, si legge nella presentazione delle ristampe, “resta un album unico nel catalogo Oasis, coi suoi eccessi impenitenti e la sua spavalderia. Venticinque anni dopo, gode di uno status leggendario come il suono di una band che ha definito una generazione”.

 

Fin qui la litania delle nostalgie e della perduta grandeur. Ma cosa fu veramente questo album, uscito sull’onda di una parossistica attenzione mediatica e annunciato come campione di vendite colossali che andranno deluse – oltre che impresa creativa sull’orlo del disastro e presagio fin troppo tardiva distruzione della band? All’uscita del disco Noel Gallagher strombazzava che la loro intenzione era quella di “surclassare ogni musicista di questo paese, perché lo vogliamo. Perché possiamo. Perché siamo i migliori”, denotando una visione a dir poco competitiva, se non revanscista della cosa musicale. E l’esordio del disco fu all’altezza: 700 mila copie vendute nella prima settimana nel solo Regno Unito, record assoluto di tutti i tempi, con un hype che montava come uno tsunami, salvo subito ripiombare sulla testa di coloro che lo stavano scatenando. Dopo le prime review improntate a isterico entusiasmo, acritico ed eccitato dalla sensazione di avere sottomano una nuova “mania” collettiva, poco alla volta i critici d’oltremanica ascoltarono con orecchio più distaccato questa lunga successione di inni elettrici, assurdamente debitori dei Beatles terminali e di tante tentazioni orchestrali che andavano rendendo “adulto” e normalizzando la scossa energetica del britpop. Nel giro di poche settimane si parlò di “Be Here Now” come della delusione cocente, del madornale errore, dell’incapacità d’essere all’altezza. E le vendite si arenarono.

Perfino Noel sarebbe tornato sui suoi passi, rinnegando quel lavoro, definendolo qualche anno dopo, nel documentario “Live Forever” (2003), “il suono di cinque tipi sotto coca in uno studio di registrazione, che se ne fregano di tutto”. Sgombriamo il terreno dagli equivoci: la verità sta nel mezzo. “Be Here Now” è tutt’altro che un disco terribile. Anzi. Ma lo diventa allorché assume il peso di epitaffio d’una veloce parabola elettrizzante e descrittiva. Alex Niven, l’autore di “Definitely Maybe”, resoconto degli esordi della band, dirà: “Avevamo amato qualcosa che era grossolano e fastidioso, ma che era talmente avvincente e che dovevi per forza guardarlo per farti un’idea di cosa fosse la Gran Bretagna in quel momento. Era una radiografia della psiche collettiva”. All’altezza del 1997 gli Oasis appartengono al tessuto culturale del Regno Unito quanto solo i Beatles avevano saputo farlo trent’anni prima.

 

Con “Definitely Maybe” avevano sancito il trionfo del nuovo rock indipendente domestico e avevano trasformato la Creation Records che li pubblicava nella factory del puro suono brit, con tanto di marchio di fabbrica. Il dualismo con i Blur, col suo banale contenuto di contrapposizione sociale proletariato-borghesia, arrivava comunque a completare un quadro di quell’istante storico, insieme a emblemi potenti come le Spice Girls e l’esplosione di internet. Gli Oasis erano l’orgoglio della macilenta classe operaia dell’isola, quella che veniva giù dalla cultura dei pub e della partita il sabato pomeriggio, filtrata attraverso le catartiche esperienze controculturali di cui erano state protagoniste le generazioni precedenti, dalla mod revolution al punk. I Gallagher erano i ragazzi di strada che si trasformavano in principi, da ladruncoli in frequentatori del numero 10 di Downing Street, ricoperti di soldi e successo, pedinati dai tabloid, affogati nello champagne. Una condizione che poteva durare quanto il volo della libellula.

Liam e Noel, litigando come gatti in calore, avevano passato settimane ai Caraibi in una villa di Mick Jagger a scrivere queste canzoni, sprofondando insieme alla loro tribù in un mare di droghe e brutte vibrazioni. Il risultato era sotto gli occhi di tutti: un disco perduto in una vacua autocontemplazione. Siamo sinceri, non poteva andare che così e in tanti se lo aspettavano, per non dire che l’auspicavano: il tonfo di chi troppo in fretta era salito troppo in alto, senza ali forti, un buon paracadute o, se non altro. dei consiglieri presentabili – ammesso che, perduti nel delirio, i Gallagher li avrebbero mai ascoltati. In tanti, vedendoli vestiti griffati, con quei pacchiani accessori costosi, si erano messi ad aspettare. I ragazzi dei quartieri popolari capaci di provocare un simile rigurgito di orgoglio e d’identità, col loro lirismo, col loro vero, veracissimo romanticismo inglese, ormai erano un fenomeno da stadio con tutto il cinismo che poteva circondarlo. Il regno era stato breve, come l’ascesa del New Labour, e sarebbe finito ben prima di quello di quel Tony Blair che li aveva blanditi, capiti e usati.  Del resto lo stesso britpop proprio attorno all’uscita di “Be Here Now” tirò i remi in barca, perché l’aria stava di nuovo cambiando e se c’è una cosa che il pop inglese sa fare, è rispecchiare lo spirito del suo tempo.

 

Il progressismo post thatcheriano perdeva smalto e dieci giorni dopo l’uscita dell’album la principessa Diana moriva per le strade di Parigi. Si voltava pagina, serviva un’altra musica, meno piena di sé, meno autoreferenziale e trionfalistica. Servivano i Radiohead. E “Be Here Now” era suo malgrado un prodotto asincronico. Con quella copertina, poi, frutto dei deliri di grandezza dei Gallagher. La Rolls Royce nella piscina, per rievocare Keith Moon e le sue malefatte da teppista demenziale. L’ambientazione in una mansion suburbana, che originariamente doveva essere notturna, ma che poi che venne immortalata dal fotografo Michael Spencer Jones in pieno giorno, perché era girata la voce e sul set c’era più gente che in una stazione della metro all’ora di punta. Tutti stonati, ubriachi, fuori di testa. La partita stava finendo e si capiva. Anche se era stato un brivido memorabile, finché era durato. 

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