Irama (Ansa)

In un animo solo possono convivere Bellini, la trap e Irama

Ludovica Taurisano

La distinzione tra alto e basso è più nodosa di quanto si pensi, e si confonde con l’atavica paura che il “successo” sia indice di prodotti oppiacei.  Costringersi a scegliere è un inganno.

Un’amica, qualche giorno fa, mi ha messo al corrente di essere stata a un concerto di Rossini alla Scala. “Brava, molto bene”, penserete. Mi chiedo come reagireste, invece, se vi dicessi che il mio sabato sera l’ho trascorso in piedi per sei ore in attesa di Irama. Perché la mia amica sapeva di destare in me, che sono una modesta appassionata di lirica che deve contemperare gli entusiasmi con il rincaro delle bollette, una certa dose di invidia e, soprattutto, di approvazione. E lo sapeva perché non è immune al radical chicchismo di un dibattito pubblico che, con utopie igieniste, pretende di tracciare i confini di cosa sia cultura e cosa no. 

 

Così, quando ho sguainato il mio asso nella manica (“Il Forum era sold out, è stato pazzesco!”), il suo volto ha cominciato a oscillare tra spaesamento ed ebbrezza, fino a quando mi ha confessato timidamente che a lei l’ultimo album era piaciuto ma che anche Blanco, mica male, ma invece Sangiovanni? E così via, in una conversazione che da corsa di cavalli si era trasformata in una placida passeggiata sul lungomare, ho potuto pesare il suo senso di sollievo dinanzi all’assoluzione della modesta appassionata di lirica quale sono. 

 

L’incontro-scontro non mi ha lasciata indifferente e ho cominciato a chiedermi se in un animo solo possano convivere Bellini e, che so, la trap. Penso che sì, che sia possibile, e che bisogna fare attenzione a conservare facili snobismi dal sapore ideologico-intellettuale. Perché è inequivocabile che nel nostro paese, dall’identità nazionale tardiva, il nesso tra politica e cultura sia stato sin da subito indissolubile, e che questo aggancio abbia lasciato una strisciante sovrapposizione tra elitarismi sociali e culturali. La distinzione tra alto e basso è più nodosa di quanto si pensi, e si confonde con l’atavica paura che il “successo” sia indice di prodotti oppiacei e verso i quali nessuna indulgenza estetica è consentita.

 

Ecco, è vero che tanto in democrazia quanto nel capitalismo i numeri contano. Ma, se da un lato non si deve fraintendere l’accezione di “popolare” con aspirazioni populistiche di sorta (il pop-hoolista di Fedez), dall’altro non si può liquidare, con automatismi frettolosi, l’intrattenimento di massa a un prodotto di scarsa qualità. Il cosiddetto ceto colto italiano, che i gradienti del mercato li conosce bene, mostra ancora i segni di una psicosi rispetto alla civiltà massificata e, quando prova a navigarne le logiche industriali, finisce per ridurla a una sola dimensione: quella del disimpegno, e non intendo solo etico ma artistico. Qui giace la cecità di una cultura che si lascia obnubilare dalle dimensioni di una grande “comunità immaginata” fino al punto di disconoscerne capziosamente la bellezza, anche (e soprattutto) quando emotivamente appagata.

 

Io sono, appunto, una modesta appassionata di lirica e di Irama, più precisamente dei contrappunti e dei cordofoni e di tutti i musicisti sensazionali dietro a “Nabucco” e “Mediterranea”. Ignorare deliberatamente una precisa qualità di lavoro significa declassare anche la percezione sinestetica del pubblico a un vizietto passeggero, depotenziando il ruolo che l’emotività gioca nella costruzione del corpo sociale. Ma la vera elisione dal mondo comunitario non si ha con la leggerezza, bensì con la pretesa esemplarità di un’arte “alta” e incorruttibile: le occasioni corrompono, ma lo fa anche la censura. A causa di questi paradigmi ideologici avremmo rischiato di non avere, ad esempio, la generosa produzione di Ennio Morricone. Per questo, quando mi chiederanno se ascolto una musica per molti o per pochi, penserò alla smorfia di dolore sul volto del Maestro ripreso da Tornatore: soffriva al ricordo dell’umiliazione subita per mano di un accademismo che gli imputava di tradire la musica “pura” prestandosi al cinema. E se far convivere Irama con Rossini (e Morricone) vi sembrerà un inganno, lo è a maggior ragione costringersi a scegliere.
 

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