Quando Lucio Dalla incontrò le grandi tette di Meri Luis

Un giorno d'estate del 1977, una pedalata tra lungo l'argine della Piave e quell'incontro che tre anni dopo entrò in una canzone di "Dalla". La storia vera di Meri Luis

Giovanni Battistuzzi

C’è l’odore dei campi che si stanno pian piano svegliando dall’inverno scaldati da un sole incerto. C’è un vecchio casale di campagna, ristrutturato e ora moderno nei colori e negli infissi, con pompeiana di vite americana, un trattore rosso fiammante e due biciclette di decenni fa pronte a essere rimesse in strada. C’è la porta aperta, che dà aria a uno stanzone che di antico ha solo i mobili e un po’ di pietre a vista. C’è un enorme caminetto sul lato destro. Il fuoco che arde, una grande foto appoggiata alla trave, tra due pentole in rame.

A destra un uomo alto, secco e dinoccolato con un nuvolo di capelli ricci e scuri e due baffi che dimostrano in modo lampante gli anni nei quali è stata scattata. A sinistra un uomo basso con una camicia a quadri aperta che scopre una canottiera bianca e ciuffi di peli neri, sul capo un cappello in paglia, occhiali scuri e un sorriso sornione. Si guardano di sbieco, ridono. Sullo sfondo una distesa di sassi chiari, qualche albero, un fiume, la Piave.

“Era il 1977 o giù di lì. Era estate. Eravamo andati a fare una grigliata in riva al fiume. Se ci penso che sono ormai dieci anni che non c’è più quasi non ci credo”, dice al Foglio Lucio Francescon.

Il primo marzo del 2012 moriva Lucio Dalla.

Lucio Francescon lo conobbe a Bologna mentre studiava. Si incontrarono in osteria. Galeotto fu il vino, “soprattutto quello che portavo giù da qui. Il vigneto che aveva la mia famiglia stava andando in malora, ma ancora un po’ di rosso ne usciva”.

Qui giorni li passarono a fare niente. A girare in bicicletta lungo il fiume, a scoprire posti, “luoghi di cui sapevo nemmeno l’esistenza”.

A volte è dal niente che vengono le illuminazioni.

Dalle casse la voce di Lucio Dalla riempie lo stanzone. Accanto al giradischi gli occhi in su del cantautore, quella cuffia di lana e quegli occhiali tondi. Una parola in rosso: “dalla”. E una dedica: “A Lucio da Lucio, lato b, capirai”.

Scricchiolio di puntina su vinile, musica, poi le parole: Il regista aspettava la star al ristorante / sembrava un morto con in mano un bicchiere. Meri Luis.

 

Quello che voleva dire con quella dedica lo capì alla terza strofa, “e mi misi a ridere”. Perché “Meri Luis è di qui, non so di dove, ma è di qui, del Montello forse, forse di Treviso. La vedemmo insieme”

Se non ci fosse stato uno di quei giri in sella a due condorini, le bici da città della Legnano, “Meri Luis probabilmente non sarebbe mai esistita. Eppure esisteva, eccome esisteva. Con tutte quelle sue forme, quelle grandi tette della canzone. Aspettava l’autobus davvero”.

Lucio Francescon non l’ha mai dimenticata. “Pedalavamo sull’argine della Piave che da Nervesa della Battaglia porta al ponte della Priula, quando io vedo questa ragazza prosperosa che non avevo mai visto. Roba che finisco giù dall’argine e ci porto pure Lucio. Lucio si ferma, aguzza gli occhi e con un’espressione stupita mi dice: ‘Tette così belle non le ho mai viste’. Propose di andarle vicino a toccare per vedere se erano vere o di gommapiuma. E ci sarebbe pure andato se non l’avessi fermato dicendogli che mica eravamo a Bologna dove valeva tutto, che eravamo in Veneto e che c’era il rischio di prenderci una badilata in testa dal padre o dal fratello. Qui gli anni Settanta e la liberazione sessuale sono arrivati con almeno un decennio di ritardo”.

Continuarono a pedalare per tornare a casa “e ogni tanto Lucio ripensava a quella visione. E mi stupivo perché non l’avevo mai visto così interessato a una donna. Si era fatto tutto un film sulla sua vita, una storia di timidezza e inadeguatezza, di un padre iper protettivo e di un fratello che era peggio del padre. Mi diceva che prima o poi l’avrebbe ritratta in una canzone. Pensavo mi prendesse in giro. Poi tre anni dopo mi arriva per posta il disco con quella dedica”.

Chissà se Meri Luis ha davvero deciso che l’amore è bello, ha abbassato gli occhi e si è lasciata andare. Sicuro è che dopo quella volta Lucio Francescon l’ha vista una decina di volte, sempre timida alla fermata del bus per Treviso. Non ci ha mai parlato “un po’ perché ero fidanzato e la mia morosa di allora, che poi è diventata mia moglie e ancora lo è, era molto gelosa. Un po’ perché non ho mai avuto il coraggio di rovinare il ricordo di quella giornata”.

Meri Luis è rimasta voce, un passaggio che fa stride, ma nemmeno poi tanto, con il finale della canzone: Adesso mio Dio dimmi cosa devo fare / se devo farla a pezzi questa mia vita / oppure sedermi e guardarla passare / Però la vita come è bella / e come è bella poterla cantare.

Perché in fondo la vita Lucio Dalla l’ha continuata a cantare, a modo suo, con quel suo sguardo delicato e personalissimo sul mondo che è riuscito a diventare comune a molte, moltissime persone. “Ci siamo divertiti in quegli anni. Prima a Bologna, poi quando saliva qui. Poi ci siamo persi. Io avevo i ritmi da contadino, lui da cantautore. Ma ogni tanto ci mandavamo una lettera. Lui mi raccontava cose inventate, io dei campi. Lui era creativo, io uno che dopo aver pensato di fare il magistrato si è ritrovato a non poter star lontano dalla terra”. Ognuno ha la sua via, ognuno la sua strada, come in Meri Luis, la canzone.

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