Beethoven, ardimento e tradizione. Le magnifiche alchimie di @igorpianist

Roberto Raja

Igor Levit ha chiuso il Ravello festival diretto da Alessio Vlad

"Ci sono tappe e luoghi bellissimi. E poi c’è questo”, twittava @igorpianist il 28 agosto. “Questo” era, nella foto accanto, un palcoscenico-terrazza proteso nel vuoto, con il cielo e una striscia di mare, 360 metri più in basso, come quinta, e sopra quel palco solo un pianoforte gran coda aperto. Igor Levit ha presentato così ai suoi follower il Belvedere di Villa Rufolo dove si è esibito poche sere fa nel concerto conclusivo del Ravello Festival, premiando finalmente le attese di una platea italiana che se le era viste tradite nell’aprile dello scorso anno, quando il lockdown aveva imposto la cancellazione del concerto romano a Santa Cecilia (con Antonio Pappano sul podio, Levit aveva in programma l’impervio e inusuale Concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile di Ferruccio Busoni), e poi sotto Natale, ancora in tema di restrizioni da Covid, si era dovuta accontentare della trasmissione in streaming, sempre con l’Orchestra di Santa Cecilia, questa volta diretta da Kiril Petrenko, di uno strepitoso Primo concerto di Prokofiev. Mute o deserte le sale, il giovane pianista – oggi ha 34 anni – ha comunque nutrito di social network l’isolamento forzato inventandosi la formula del breve concerto quotidiano proposto in streaming su Twitter dalla sua casa alla periferia di Berlino. Una cinquantina di appuntamenti, dal giorno successivo al decreto di Angela Merkel sul lockdown in Germania, che sono arrivati a procurargli decine di migliaia di follower. La confidenza con i social, la disinvoltura con cui posta fianco a fianco un’immagine dei Simpson, un selfie ai fornelli, l’istantanea di una sala gremita durante un suo concerto o il grido di protesta contro l’estrema destra e i rigurgiti di antisemitismo in Germania ne fanno per molti aspetti il pianista perfetto per i nostri anni (perfetto anche per suggerire quanto ancora possano essere cool Beethoven e Bach, o persino Busoni). Ma non è tutto. Aiuta, ma non basta a spiegare.

 


 

Igor Levit è un ebreo russo naturalizzato tedesco (vive in Germania da quando aveva otto anni). “Citizen. European. Pianist” il ritratto scolpito nell’home page del suo sito. La biografia musicale aggiunge il talento naturale e la tecnica eccellente, la grande scuola, i premi, la curiosità onnivora: dai classici ai compositori contemporanei, da Thelonius Monk a Eminem. La tradizione e l’ardimento. La prima pubblicazione per una major discografica è del 2013: Beethoven, ma non la Patetica o l’Appassionata, come ci si sarebbe potuti aspettare da un pianista di ventisei anni. Levit si butta a capofitto nelle ultime Sonate. “So che c’è questa mentalità secondo cui bisogna aspettare di avere sessantacinque anni e di aver visto la vita, il mondo e la sofferenza prima di avvicinarsi al tardo Beethoven”, dirà poi in una conversazione con Alex Ross, “ma conosco dei tredicenni che hanno provato un livello di sofferenza di cui questi artisti sessantenni eleganti e pieni di sé non hanno assolutamente idea”. Lui aveva visto già abbastanza. Tanto più lo si può dire oggi, otto anni dopo quell’esordio e ascoltandolo dal vivo. 

 

A Ravello, Levit è tornato là, all’ultimo Beethoven dell’op. 109, 110 e 111, ed è difficile immaginare pagine più cariche di bellezza, di umana intensità, di audacia. Una geniale alchimia che il pianista ha colto plasmando l’urgenza espressiva con il controllo del suono, la cantabilità (il tema delle variazioni dell’op. 109, l’Arioso dolente della 110, l’Arietta della 111) con la padronanza dello stile e dell’architettura formale. La tecnica, nella sua naturalezza, passa quasi inosservata, ma è ciò che consente a Levit di far emergere anche la fascinazione timbrica del pianoforte dell’ultimo Beethoven, proiettato ormai verso la pura contemplazione del suono e in una dimensione in cui il ricorso a stilemi del passato (la fuga, le variazioni) sgretola le certezze formali del presente, si trasfigura (quelle variazioni, i trilli, gli ostinati ossessivi non hanno più una semplice funzione decorativa, sono elementi portanti del discorso musicale) e spalanca una porta sul futuro.

 

Non restava altro da dire, dopo l’ultimo accordo della 111, se non cedere alle lusinghe del pubblico con un fuori programma schubertiano, un Momento musicale, in una esecuzione ancora una volta incantatoria. Nel nome di Schubert, qualche sera prima, la serie dei concerti sinfonici della rassegna si era chiusa con l’Orchestra del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo diretta dallo zar Gergiev, che ha reso bene l’inconfondibile passo della Grande e il conflitto tra l’andamento assertivo e le inquietudini che la percorrono. Solo qualche magia del secondo movimento si è persa un poco nella brezza che arrivava a scompaginare le parti sui leggii. Generoso il bis, un sontuoso Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy.

 


Il Ravello Festival si avvia dunque a compiere nel 2022 i suoi primi settant’anni, forte dell’accelerazione sul piano della qualità impressa nelle ultime due stagioni dal direttore artistico Alessio Vlad. La musica sembra infine aver avuto ragione anche delle polemiche della vigilia: la querelle tra Saviano e il governatore De Luca per una partecipazione negata dell’autore di Gomorra alla rassegna e le conseguenti dimissioni di Antonio Scurati, presidente della Fondazione di fresca nomina. Il festival “deve avere la musica al centro, perché di festival multidisciplinari è piena l’Italia”, dice Vlad, forse rispondendo implicitamente alla contesa del giugno scorso. I numeri sono dalla sua: le serate di questa stagione, nonostante le restrizioni e gli indispensabili posti vuoti, hanno raccolto oltre cinquemila spettatori. “Ci sono gli appassionati che si spostano da un festival all’altro, ci sono molti turisti stranieri e anche giovani. Attratti dai grandi maestri che abbiamo invitato ma anche dall’unicum di questa manifestazione: la musica in un paesaggio d’eccezione”.

 

(Foto della Fondazione Ravello)

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