Nina Simone in una foto del 1985 (LaPresse)

Summer Of Soul

Nina Simone, B. B. King, Sly Stone e un giovane Stevie Wonder: l'altra Woodstock

Marco Ballestracci

Un documentario Disney racconta il festival che ha trasformato il soul, il rhythm & blues e la musica nera senza bisogno delle bandiere di Black Lives Matter

Il vero centro pulsante di Harlem è ancora oggi rappresentato da un edificio, l’Apollo Theater, che dal 1914 sorge sulla 125esima strada, in un punto che sta esattamente al centro tra i due fiumi che circoscrivono il quartiere: l’Hudson a ovest e l’Harlem River, che in realtà è un canale, a est. Il locale ha rappresentato dal punto di vista musicale ciò che, in senso culturalmente più ampio, è conosciuto come Harlem Renaissance e la lista degli artisti che iniziarono la carriera nelle “Amateur Night At The Apollo” è lunga e, per l’importanza dei nomi, davvero eclatante.

 

Molto poco distante dall’Apollo, un chilometro a sud-est, c’era il Mount Morris Park, che oggi continua a esserci, ma che dal 1973, segno inequivocabile d’un cambiamento nei rapporti razziali – senza dubbio difficile, ma comunque in atto – diventò il Marcus Garvey Park. Là, al Mount Morris Park, si svolsero nei pomeriggi delle domeniche d’estate del 1969 gli spettacoli dell’Harlem Cultural Festival, da cui sono stati tratti gli spezzoni d’uno dei film più importanti del 2021: “The Summer Of Soul”, prodotto dalla Disney e vincitore del Gran premio della giuria del Sundance film festival. Al film è stata subito apposta un’etichetta che dovrebbe introdurre lo spettatore nello spirito dell’opera: “La Woodstock dimenticata dei neri”.

 

Non c’è alcun dubbio che sia fantastico per qualsiasi appassionato di musica afro-americana rivedere cantare Nina Simone, B.B. King, Sly Stone, stupirsi per un giovanissimo Stevie Wonder che suona la batteria o per le ottave altissime di David Ruffin in “My Girl”, e, al tempo stesso, apprezzare la qualità delle immagini che sono state restaurate con grande scrupolo. Tuttavia il grande battage pubblicitario che lo rappresenta come una sorta di contraltare di Woodstock è anche l’opportunità per ringalluzzire le passioni degli adepti d’un movimento piuttosto diffuso, il “reducismo”. I tratti fondamentali del “reduce” sono facilmente riconducibili a un motto: “La musica moderna ha offerto tutto ciò che poteva dare tra il 1965 e il 1972, e Woodstock e Monterrey sono stati i due concerti più memorabili della storia”.

 

Questo significa che il nostro uomo, qualora si fosse imbattuto in un concerto dei Clash a Brixton, avrebbe storto il naso pensando alla pirotecnia woodstockiana di “Soul Sacrifice” di Carlos Santana, oppure, rivedendo i sabba elettrici di Neil Young and Crazy Horse dell’inizio di questo secolo, si sarebbe un poco tappato le orecchie rimpiangendo le chitarre acustiche e le armonie vocali di Crosby, Still, Nash and Young. Così il reduce, per la sua natura intrinsecamente nostalgica e anche un pochino appesantito dall’aria di grande complotto covidiano, rappresenta l’interlocutore perfetto per diffondere il messaggio, piuttosto chiaro a un occhio disincantato, che gli show portati alla luce da “Summer Of Soul” siano stati per molto tempo celati a causa di una subdola prevaricazione verso il grandissimo talento musicale dei neri, così da evitare che potesse diffondersi un’atmosfera libertaria, ma di sfondo razziale, analoga a quella di Woodstock.

 

Perciò affermare che Disney, contando su questa emozionalità, abbia pensato di produrre un bellissimo documentario sul soul e il rhythm and blues (soul e rhythm and blues sono, in realtà, la medesima musica. Lo afferma Jerry Wexler in un’intervista a Peter Guralnick e su questo tema nessuno al mondo può smentire Jerry Wexler) e successivamente, per accrescerne la vendibilità, di aggiungere alla musica un’accattivante aroma di “Black Lives Matters, beh, se non è proprio del tutto vero, poco ci manca.

 

Tuttavia è senza dubbio vero che il soul (che verrà indifferentemente alternato con la parola rhythm and blues) è stata la musica che più di tutte ha accompagnato la lunga marcia del movimento per i diritti civili e la ragione per cui ciò è accaduto non è difficile da spiegare. Prima del 1957, quando Sam Cooke decise di cambiare nelle canzoni di chiesa la parola “Lord” con il più prosaico “Love” e inaugurò la brillante strada del rhythm and blues, il soul si chiamava gospel ed era la musica che impregnava il legno di abete delle tantissime chiese protestanti “colorate” e i pastori di quelle comunità rappresentavano l’autentica spina dorsale della borghesia afroamericana.
Non è perciò un caso che siano stati i pastori battisti i principali leader del movimento per i diritti civili e che la musica che ne accompagnava i progressi fosse proprio il rhythm and blues.

 

Comunque, di fronte al sussurro disneyano che l’occultamento delle immagini di “Summer Of Soul” sia stato un tentativo di celare l’importanza della musica nera, si può agevolmente  contrapporre l’evidenza storica di come, già prima del 1969, tutti – bianchi e neri – conoscessero bene il valore non solo artistico del rhythm and blues. Quando a Memphis, il 4 aprile del 1968, James Earl Ray sparò a Martin Luther King e lo uccise, a Boston, nonostante la sospensione di tutti gli eventi pubblici, il sindaco Kevin White decise, per evitare disordini, di confermare un’unica esibizione: il concerto di James Brown al Boston Garden. In più stabilì che il concerto fosse trasmesso in televisione dalla Wgbh. Durante l’esibizione il sindaco salì sul palcoscenico e parlò alla folla, mentre al suo fianco James Brown calmò più volte gli spettatori che insultavano le autorità e minacciavano di irrompere sull’assito del palco. Al termine dello spettacolo, il Soul Brother n.1 raccomandò a tutti di tornare a casa perché, da lì a poco, avrebbero potuto rivedere l’intero show in televisione e che sarebbe stato più volte ripetuto perché anche ritardatari ne godessero.

 

Non molto tempo dopo il sindaco ammise candidamente in un’intervista che “i soldi dell’ingaggio di quella sera al Boston Garden sono stati i soldi meglio spesi in tutta la storia della città di Boston”. Quattro mesi dopo – sempre in anticipo rispetto all’Harlem Cultural Festival –  uscì il singolo di James Brown “Say It Loud, I’m Black and I’m Proud” che, in barba alla supposta prevaricazione sulla musica nera, raggiunse il numero dieci delle canzoni più ascoltate in America, oltrepassando una volta per tutte i ristretti limiti della categoria delle “rhythm and blues charts”, la nuova denominazione di ciò che, fino al 1949, Billboard aveva sempre chiamato “race records charts”, che significava – è sempre interessante rammentarlo – “la classifica della musica di razza”.

 

Un altro pesantissimo colpo alla Teoria dell’Occultamento di “Summer Of Soul” arriva dalla ben conosciuta (per gli appassionati) distribuzione cinematografica da parte della  Columbia Pictures del documentario “Wattstax”, nel febbraio del 1973. La Stax, la celebre casa discografica rhythm and blues di Memphis che portò al successo Otis Redding, Sam & Dave e Wilson Pickett, organizzò a Los Angeles un concerto commemorativo per il settimo anniversario dei violentissimi scontri razziali di Watts. Il 20 agosto 1972, davanti a più di centomila persone che ballavano nel gigantesco dancefloor del Los Angeles Memorial Coliseum, suonarono per cinque ore i più importanti artisti dell’etichetta e dall’happening  vennero tratti un doppio lp e un film che ottenne la nomination per il miglior documentario ai Golden Globe del 1974.

 

La struttura del concerto – e quindi anche del documentario “Wattstax” – ricorda moltissimo lo svolgimento dell’Harlem Cultural Festival, con l’introduzione del reverendo Jesse Jackson e con Isaac Hayes a svolgere il ruolo di capo carismatico musicale che  in “Summer Of Soul” spetta a Nina Simone. A questo punto ciò che, per miracolo, rimane intatto della teoria disneyana della “Woodstock dimenticata dei neri” viene definitivamente abbattuto proprio dalle bordate dei due grandi festival che i fan del “reducismo” amano così tanto: il Monterey International Pop Music Festival, svoltosi il 16, 17 e 18 giugno 1967, e, appunto, il Woodstock Music and Art Festival: i tre giorni leggendari di pace, amore e musica dipanatisi tra il 15 e la mattina del 18 agosto 1969.

 

A Monterey, per esempio, quando si trattò di immaginare un disco che commemorasse l’evento, tra le numerose esibizioni di famosissime band, Lou Adler e John Philips – i principali organizzatori del festival – decisero che il 33 giri rappresentativo delle “storiche esibizioni registrate al Monterey International Pop Festival” si componesse di una facciata che conteneva la registrazione dello spettacolo della Jimi Hendrix Experience e dell’altra che riportava il fulminante rhythm and blues show di Otis Redding. A Woodstock, due anni dopo, tra le esibizioni che più rimasero impresse nella memoria dei milioni di appassionati che si nutrirono degli effetti ipnotici dell’onda lunga tre giorni (e mezzo), Richie Havens e Sly Stone conservano ancora un posto di grande rilievo. Tuttavia chi veramente sbaragliò il campo nell’estatica arena di pace, amore e musica fu, senza ombra di dubbio, Jimi Hendrix.

 

Certo Jimi Hendrix non suonava il soul e non era esattamente il pupillo dei pastori protestanti. Anzi, al contrario, con il gospel e con la chiesa non aveva mai avuto nulla a che fare e s’era precipitosamente allontanato dal circuito del rhythm and blues, nonostante molti band leader avessero avvertito il suo talento, perché non sopportava la monotonia delle parti musicali da ripetere immutate concerto dopo concerto.
Eppure, nonostante questo, nel 1969 non c’era esempio di artista che s’accordasse meglio col testo della canzone, guarda caso dalla struttura molto gospel, di Nina Simone “Young, Gifted and Black”. Ciò valeva nel 1969, ma continua a valere anche oggi, nella stagione della riscoperta delle immagini e delle tracce musicali di “Summer Of Soul”. 

 

Nella storia della musica nera, solo i più grandi jazzmen – i primi che vengono in mente sono Miles Davis e John Coltrane – ebbero un impatto equivalente a quello di Hendrix, che si traduce ancor oggi, a 51 anni dalla morte, nell’evidenza di un’indiscutibile genialità artistica ben lungi dall’essere avvicinata da chicchessia. Ma nell’estate del 1969, nonostante un concerto di beneficenza sulla 139esima strada (ad Harlem) e uno al Salvation Club nel Greenwich Village, Jimi Hendrix – il nero d’America più giovane e dotato – non salì sul palco dell’Harlem Cultural Festival, nonostante l’happening durasse tutta l’estate. Suonò invece a Woodstock, che dista solo cento miglia da Manhattan, più o meno a due ore e mezza di automobile. Inutile dire che allora la sua assenza dispiacque a tutti, così come continua a dispiacere oggi. Ed è facile immaginare che sia soprattutto Disney a dolersene.