Duke Ellington al pianoforte al KFG Radio Studio (foto Wikimedia commons)

il foglio del weekend

Prodigi musicali

Marco Ballestracci

Duke Ellington e quei ventisette giri di assolo di un sassofono che cambiarono il jazz. Così l’improvvisazione diventò un super potere

L’arte salvifica dell’improvvisazione. Quando, il 30 settembre del 1939, Igor Stravinskij sbarcò per la seconda volta in America per tenere sei lezioni su “La forma poetica della musica” per le annuali Charles Eliot Norton Lectures dell’Università di Hardvard, non immaginava che, da quel preciso momento, gli Stati Uniti sarebbero stati la sua nuova patria e che avrebbe rivisto l’Europa, da ospite, ben ventitré anni dopo. Perciò quando il comitato di accoglienza gli chiese cosa desiderava vedere prima di tutto a New York, Stravinskij rispose con la foga di chi pensa di non avere molto tempo a disposizione per spuntare la lista dei desideri.

“La prima cosa che voglio fare è andare ad Harlem e sentire le sinfonie jazz di Duke Ellington. Vi sarei molto grato se mi accompagnaste al Cotton Club per ascoltarle”. I distinti signori rimasero di sasso. Cosa accidenti era il Cotton Club e chi era Duke Ellington?

Era un’ignoranza scusabile visti i tempi, perché al ritorno dalla trionfale tournée europea del 1933, quando Stravinskij aveva ascoltato Ellington per la prima volta e aveva condiviso la diffusa opinione che quella musica era lo sbocco naturale della tradizione classica, l’orchestra era immediatamente partita per una serie di spettacoli nel Sud – il chitlin circuit, come lo chiamavano a New York – in cui i musicisti così tanto osannati nel Vecchio continente, a causa della segregazione in vigore nei vagoni passeggeri, erano tornati a convivere con le consuete cautele che erano necessarie durante i lunghi viaggi in treno.
Perciò era abbastanza probabile che se Stravinskij, prima di recarsi a Boston per le Norton Lectures, avesse insistito per trascorrere una serata al Cotton Club di Harlem sarebbe stato necessario far intervenire delle persone – degli intermediari, diciamo così – che ne garantissero l’incolumità.

Tuttavia, il 23 gennaio del 1943, la genialità e la tenacia di Ellington fecero in modo che Igor Stravinskij poté accomodarsi in una delle poltrone rosse della Carnegie Hall, poco distante da Leopold Stokowski, per ascoltare i quarantacinque minuti della suite “Black, Brown and Beige”, una sorta di storia in musica dei neri d’America.

La mattina successiva il New York Herald Tribune scrisse: “Duke Ellington è l’unico musicista di jazz che propone della musica così interessante che è necessario valutarla coi criteri che si applicano alla musica classica”.

Sette anni dopo, nel 1950, Arturo Toscanini gli commissionò  una partitura che facesse interagire l’orchestra di Ellington con l’Orchestra Sinfonica della NBC e ne sortì l’altrettanto entusiasmante “The Harlem Suite”.

Insomma, si poteva dire che, all’inizio degli anni Cinquanta, Duke Ellington era uno dei massimi compositori e direttori

d’orchestra del mondo e che fosse riuscito, almeno per quanto lo riguardava, nell’arditissima impresa d’abbattere la linea del colore.

Tuttavia mentre si cimentava nella scrittura della prestigiosa “Harlem Suite” il mondo del jazz stava mutando velocemente. Nelle strade di New York, tra il Minton Playhouse ad Harlem e l’Onyx Club sulla 52esima, era cresciuto e s’era diffuso il bebop e, nonostante le iniziali perplessità sul nuovo movimento, ben presto  si comprese che il forte impulso che conteneva rappresentava il futuro di quella musica.

 

“A differenza di una sezione ritmica che scandisce pesantemente ogni accordo, quattro colpi per misura, così che tre o quattro solisti possono suonare lo stesso accordo, la sezione ritmica del bebop ha un sistema di punteggiatura ad accordi. In questo modo il solista è in grado d’udire l’accordo senza sentirselo cacciare in gola. Può pensare mentre suona” (Lennie Tristano).

Ma non erano solo questioni armoniche. I gruppi di bebop tenevano in piedi una serata con cinque o sei elementi e costavano molto meno delle orchestre, perciò per un motivo o per l’altro, pur vantando un’indiscutibile fama, le cose per Ellington cominciarono a peggiorare.

Ciò nonostante Duke Ellington era pur sempre Duke Ellington e George Wein lo invitò come principale attrazione alla terza edizione del Newport Jazz Festival, che si tenne il primo fine settimana di luglio del 1956.

Ellington aveva suonato anche nell’edizione precedente, ma l’anno trascorso era stato molto difficoltoso a causa del rapidissimo incedere del bebop e il concerto del 7 luglio era foriero d’un esito decisivo: o l’orchestra dimostrava d’aver fatto dei passi verso ciò che tutti ormai consideravano il futuro, oppure il suo destino sarebbe stato un crepuscolo piuttosto veloce, com’era accaduto a molte altre big band annientate dal furore dei boppers, con buona pace di Stravinskij, Stokowski e Toscanini.

Perciò Duke Ellington e Billy Strayhorn avevano preparato con attenzione la serata e avevano puntato le proprie carte su una nuova suite composta apposta per il festival.  Era formata da tre brani: “Festival Junction”, “Blues To Be There” e su ciò che avrebbe dovuto scrollare clamorosamente il pubblico, il drive scattante – quasi bop – di “Newport Up”. In effetti i piedi del pubblico si mossero, ma non con la speditezza che i musicisti s’attendevano. Neppure “Newport Up” fece scintillare l’euforia che tutti aspettavano come la panacea di ogni male.

 

Ora, davvero, il re era nudo e in qualche modo doveva riuscire a rivestirsi, perciò Ellington abbandonò l’arte concertistica per cui era stimato da così tanti celebri compositori e giocò la carta del funambolismo, tanto cara a quei musicisti di colore, ma non solo, che erano poco pratici del pentagramma, ma il cui strumento aveva sempre dato loro da vivere.

Perciò durante “Diminuendo in Blue and Crescendo in Blue” Ellington s’accordò con un’occhiata col suo sassofono tenore, Paul Gonsalves, e lo lanciò in un numero da Circo Ringling.

Dopo che l’orchestra al completo suonò il tema, sostenuto dai soli contrabbasso, batteria e piano, Gonsalves attaccò, uno dietro l’altro, ventisette giri di assolo.
Sulle prime il pubblico (che George Avakian nelle note di copertina di “Ellington At Newport” definisce “una platea di solito sotto sedativo”) pensò alla classica esibizione di abilità che sarebbe durata il tempo necessario, ma dopo il decimo giro di un assolo che non accennava affatto a esaurirsi, gli spettatori cominciarono a perdere la tramontana, accompagnati dal furore dei membri dell’orchestra, a loro volta eccitati dalla prestazione del collega, che a gran voce incitavano Gonsalves perché non smettesse di suonare.

Alla fine dei ventisette chorus le grida dei musicisti e le urla del “normally sedate crowd” rendevano quasi indistinguibili gli ultimi, esausti fraseggi del sassofono tenore. Così il parossismo generato da Gonsalves trascinò la seconda parte del concerto in una sorta di marcia trionfale, allontanando per sempre lo spettro del veloce crepuscolo.

Mercer Ellington, il figlio di Duke, sottolineò sempre come il padre, dopo i ventisette giri di assolo che condussero quasi allo svenimento il solista, si sentì eternamente grato verso Paul Gonsalves perché la sua straordinaria pièce de resistance aveva rilanciato le sorti dell’orchestra.

Era evidente che era stata una performance che non c’entrava nulla con la grande arte musicale di Stravinskj, era piuttosto un perfetto esempio di giocoleria strumentale come quelli che accompagnavano i jitterbug là dove i neri avevano voglia di divertirsi. 

Quello di Ellington a Newport fu uno degli esempi più eclatanti del potere salvifico dell’improvvisazione, ma aldilà della natura di ultima spes, l’improvvisazione (o l’assolo) ha una funzione più importante: quella di dividere il mondo musicale in due parti. Chi si affida anima e corpo alla partitura e chi, come i membri dell’orchestra di Ellington, per via d’una formazione musicale molto più “sulla strada”, può fare tranquillamente a meno dello spartito.

Non è tuttavia una distinzione peregrina, è davvero un’isoglossa del linguaggio musicale. Lo sanno molto bene, per esempio, quei musicisti di club che hanno avuto a che fare, prima del Covid, con ensemble di strumentisti classici in occasione delle frequenti serate di musica leggera che, d’estate, rallegrano i paesi.
Per loro è affatto straniante la circostanza di non comprendere le convenzioni comunicative dei musicisti classici, tanto da sentirsi del tutto inadeguati alla situazione, tranne che nel momento salvifico dell’assolo che molto spesso la musica non colta richiede. Allora l’inadeguatezza scompare, perché soventissimo i diplomati di conservatorio declinano volentieri l’invito di assumersi una responsabilità gonsalvesiana e lasciano all’anatroccolo più bruttino l’arduo compito di traghettarli sani e salvi sino alla parte conclusiva del pezzo, in cui si appropriano nuovamente della sovranità musicale.

La situazione diventa persino esilarante quando per spiegare il motivo dell’inspiegabile forfait riparano dietro un “guarda, devo cominciare proprio il mese prossimo il corso d’improvvisazione”, lasciando incredulo chi è cresciuto ascoltando e apprendendo dalla radio o dai dischi i riff dei grandi solisti disseminati nel blues, nel jazz, nel rock e in tutte le forme miste che questi generi sottendono.

Perciò l’effetto dell’assolo di Paul Gonsalves è esemplare: per l’entusiasmo incontenibile dei colleghi d’orchestra che, per la durata di quei ventisette chorus, si sentirono finalmente liberi dalle rigorose partiture ellingtoniane che li avevano condotti, lo sapevano tutti, a schiacciare dei pisolini durante il concerto da cui si svegliavano esattamente quand’era il momento di suonare la propria parte. Al tempo stesso, però, permette di comprendere lo sbigottimento dei musicisti dell’orchestra di Woody Herman che, nel 1944, s’erano recati all’Onyx Club per ascoltare il pionieristico quintetto bebop di Dizzy Gillespie e Oscar Pettiford.
“Appena entrammo, quei tipi afferrarono i loro strumenti e si misero a suonare quella loro roba folle. Uno si interrompeva improvvisamente, un altro cominciava a suonare senza una ragione. Noi non avremmo mai saputo dire quando un assolo avrebbe dovuto cominciare o terminare. Poi tutti quanti smisero di suonare di punto in bianco e se ne andarono dal palco. Ci spaventarono”.

Perciò l’isoglossa della musica si muove tra partiture e improvvisazione, più o meno scandendo il confine tra la musica colta e la musica non colta o, meglio ancora, tra la musica classica e la musica non classica.

Certo, ci sono migliaia di eccezioni: ci sono Marta Argerich e uno dei suoi maestri, Frederich Gulda, che curiosamente suonò al Newport Jazz Festival 1956 nella stessa serata di Ellington, e c’è, per esempio, Daniel Barenboim che in “Mi Buenos Aires Querido” pare non abbia fatto altro che suonare il piano nelle milonghe portene.

Ma le eccezioni non confermano la regola, sottolineano una forma mentis e, ancora una volta, è necessario citare un musicista dalla mente davvero peculiare.
“La sue incisioni ci mostravano che la musica classica non era tutta sentimento e decoro, abiti da sera e volontà di compiacere il proprio insegnante. Poteva essere spigolosa e solitaria, eccitante come una scatola del piccolo chimico, una partita a scacchi o lo scroscio della pioggia sul parabrezza”. E’ Evan Eisenberg, nel libro “L’Angelo con il Fonografo”, a descrivere in questo modo Glenn Gould.

Dev’essere quell’eccitazione nascosta tra i martelletti, ma ben presente all’ascolto, che spinse Bill Evans a chiedere a Gould di poter utilizzare il suo pianoforte – il mitologico Steinway CD 318 – per incidere in solitudine, nel 1963, “Conversations With Myself”. C’era qualcosa dentro a quello strumento che si prestava perfettamente all’improvvisazione, nonostante Gould ci avesse suonato soprattutto Bach, Gibbons e Schoenberg. Bill Evans percepiva quel qualcosa e incise tutto il disco con quel pianoforte specialissimo.

Così, nel 1964, conquistò il suo primo Grammy Award per il miglior album di jazz strumentale e pure le cinque stelle di gradimento di DownBeat. 

Così come Duke Ellington sapeva benissimo che Paul Gonsalves conosceva ogni dettaglio del linguaggio gorgogliante del rhythm and blues, quello che faceva scatenare i ballerini nei jitterbug, così Bill Evans sapeva benissimo quanta anima jazz aveva il pianoforte di Glenn Gould.

Era solamente necessario attendere il momento giusto, come quando Ellington sul palco di Newport, il 7 luglio del 1956, guardò Paul Gonsalves e con gli occhi, ma forse non solo con quelli, gli disse: “Svegliami ’stì morti!”.

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