Festival di Sanremo

Palombelli per Sanremo e il cuore grande delle ragazze

Simonetta Sciandivasci

Barbara incita alla sommossa, Mahmood salva la serata, Fiorello surclassa Achille Lauro, Gaudiano vince tra i giovani, e tutto il resto sa di panna cotta. 

Due anni fa, quando Mahmood vinse il festival grazie al voto di sala stampa e giuria d’onore, che ribaltò quello della giuria popolare, dibattemmo, naturalmente litigando, del distacco tra giornalisti e paese reale, nazionale e popolare, intellettuali d’oggi e idioti di domani, Twitter e share, sinistra e ultimi della terra. Una Leopolda, praticamente. 

 

In conferenza stampa, Ultimo, in testa con distacco nella classifica popolare, disse ai giornalisti: “Voi avete questa settimana per sentirvi importanti e dovete sempre rompere il cazzo”. Momenti di non trascurabile pasolinismo che portarono a correggere il regolamento, di modo che il giudizio degli italiani da casa contasse di più e la kasta non avesse il potere di stracciarlo.

 

Ieri sera, la classifica finale e quella della sala stampa avevano più punti di contatto delle correnti del Pd, dove si litiga perché, scriveva ieri Michele Serra, litigare è uno dei pochi tratti identitari rimasti a sinistra, ma “il vero problema è che, fuori da quelle stanze, si fa una tremenda fatica a capire perché si litiga”.

 

In sostanza, la sinistra non ha colmato il gap che la distanzia dal paese. I giornalisti, invece, un poco, sì, e infatti sbattono Aiello, Random, Bugo e Gio Evan agli ultimi quattro posti, proprio come fa la classifica generale; puniscono gli Extraliscio con un diciottesimo posto che nella lista generale diventa tredicesimo, e se l’ordine dei giornalisti fosse una cosa seria, avrebbe già avviato una purga o almeno un provvedimento disciplinare; porta sul podio Colapesce e Dimartino (primi), Maneskin (secondi), Willie Peyote, ai quali invece la classifica generale assegna, rispettivamente, ottavo, quinto e secondo posto. Sui Maneskin  c’è accordo universale e interclassista.

 

La sinistra riparta dalla sala stampa di Sanremo, ieri omaggiata con Barbara Palombelli nel ruolo di coconduttrice, il ruolo che, nelle puntate precedenti, è stato di Matilda De Angelis e di Elodie. Come loro, anche Palombelli ha tenuto il suo monologo, naturalmente dedicato alle donne, anzi alle ragazze, per dir loro che devono ribellarsi, proprio come ha fatto lei; che devono “studiare fino alle lacrime e lavorare fino all’indipendenza”, sempre come ha fatto lei; che devono ricordarsi di aver trovato tutti i diritti pronti per l’uso, grazie a quelle come lei che hanno lottato per ottenerli.

 

Prima di incrociare questa sua lettera motivazionale all’autofiction, Palombelli ha ricordato che le donne italiane, in questo momento, reggono il paese, accudendo figli, nonni, genitori e pure professori in dad. A riprova della presa del giornalismo sulla realtà, ha detto anche che negli anni Sessanta, in Italia, non c’erano droghe. In chiusura, il rumore di cui parlava la canzone di Diodato dell’anno scorso, ovverosia la voce di certi amori che finiscono ma non smettono e che prende a parlarci nei momenti più inattesi, Palombelli l’ha trasformato in un incitamento alla piazza: “Ragazze, fate rumore!”.

 

Un altro momento di molto ragguardevole è stato il duetto di Fiorello con Achille Lauro, con Fiorello che è riuscito molto meglio di Lauro a restare fedele alla giocosità kitsch di Rolls Royce, che di Lauro ci aveva fatto innamorare immediatamente, e che poi però Lauro ha accantonato, essendosi deciso a diventare il cambiamento che vorrebbe vedere in Italia. Qualcuno lo fermi, per carità, o almeno gli dica che ad accettare il bacio omosessuale ci sono arrivati perfino gli italiani, e non da poco, quindi se proprio vuole può passare al seminario successivo.

 

È un peccato che Lauro sia diventato contenutista: diceva molto di più quando rivendicava di non voler dire proprio niente.

 

La seconda prodezza di Fiorello è stata lo sketch in cui s’è servito dell’etologia per sfottere le brigate degli offesi, ma pure per dirci come fanno sesso i pitoni. La terza, cantare “Siamo donne” con Amadeus, imparruccato con una zazzera cotonata.

 

A Gaudiano è andata la vittoria delle nuove proposte, e nessuno ci ha trovato niente da ridire. Gli altri in gara, tutti maschi, hanno dimostrato di aver capito come si va a Sanremo molto meglio dei big e, di più, sono stati parecchio più intensi dei veterani. Per il resto, le quasi sei ore di diretta sono scivolate via lisce come l’olio e noiose come la panna cotta: è il festival più altalenante che c’è, una sera stupendo, l’altra insostenibile, un giorno invincibile e quello dopo quasi ferito a morte. E’ un festival che sembra Renzi.

 

Tuttavia, proprio quando davamo la serata per spacciata, è arrivato Mahmood, a ricordarci quanto ci avevano visto giusto i giornalisti, per una volta.

 

Le esecuzioni migliori, alla quarta serata, ci sembrano ancora quelle delle coppie: i Coma_Cose, La rappresentante di Lista (attenzione perché questo nome potrebbe attirare i sei personaggi in cerca di segretario che in questo momento sono i vertici del Pd: dopo la mozione #amedeonazzari, quella #cantantisanremesi è quasi un’ipotesi affascinante), Fedez e Michielin.

 

L’ignobel va ad Aiello, che oltre a perseverare nel malvestitismo, ogni sera urla di più e ascoltarlo è uno strazio che non sopporterebbero neppure i galleristi d’arte moderna, quelli che “se al MoMa ci mettessero uno che vomita, applaudirebbero”.

 

Brave Alessandra Amoruso e Matilde Gioli a ricordare che i lavoratori dello spettacolo rischiano di non essere mai più lavoratori, anche se sarebbe stato più giusto farle esibire un po’ prima della notte fonda.

 

Per stasera teniamoci pronti a tremare come foglie e poi cadere, al tappeto. Si muore un po’ per poter vivere.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.