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Un'autobiografia a metà. Prince sul mistero di sé, con le più amorevoli cure

Stefano Pistolini

“The Beautiful Ones” è il racconto limitato al sofferto e folgorante inizio

“The Beautiful Ones” è una canzone di Prince che compare nella colonna sonora del film “Purple Rain”, primi anni Ottanta, al culmine della popolarità dell’artista, scomparso nel 2016 a 57 anni d’età. Inizialmente si pensava che il pezzo fosse dedicato a Susannah Melvoin (la gemella di Wendy, chitarrista della band di Prince, The Revolution), ed è un sermone piccato rivolto a una ragazza che dedica le proprie attenzioni a qualcuno di diverso dal suo genio canterino. Poco prima di morire, però, Prince in un’intervista modificò la lettura dei fatti: “The Beautiful Ones” in effetti si rivolgeva a Denise Matthews, che, sotto la sua ala protettrice, all’epoca si guadagnò una fuggevole celebrità col nome d’arte di Vanity, suggerito dallo stesso Prince, che s’era messo in testa che Denise fosse la propria alter-ego al femminile.

 

 

Il triangolo amoroso però, c’era effettivamente stato, e Vanity aveva pagato la sua debolezza finendo ripudiata. La conclusione della vicenda è sorprendente: nel febbraio dello stesso fatale 2016, anche Vanity muore per un’insufficienza renale e Prince, durante un concerto in Australia le dedica proprio questa canzone, modificandone il testo e trasformandola in una tardiva ode per Denise. Appena due mesi dopo la raggiungerà in paradiso.

 

Se si rilegge il testo della canzone salta all’occhio il pessimismo che la pervade: il grande narcisista si lamenta della maledizione dei numero uno: “Quelli meravigliosi ti fanno sempre male / quelli meravigliosi rovinano sempre tutto”, probabilmente includendo anche se stesso nella rappresentazione.

 

Un punto importante nella psicologia di Prince, del resto, è sempre stato il rapporto con gli altri, che si trattasse di sentimenti o di creatività, per come includeva le questioni della sopraffazione e della gelosia, dell’onnipotenza e dell’assolutismo. Non sorprende perciò ritrovare lo stesso titolo “The Beautiful Ones” sulla copertina dell’autobiografia di Prince, appena uscita incompleta e postuma (da Harper Collins Usa ma già dal 14 novembre in edizione italiana), comunque preziosa per penetrare nella labirintica personalità dell’artista.

 

Nella lunga nota introduttiva, il giovane editor Dan Piepenbring, che ha curato il libro, racconta come Prince stesse affrontando quel cimento con particolare impegno e di come l’avesse scelto per coadiuvarlo, mandando l’autista Kim a prenderlo con la limousine d’ordinanza. Il progetto che aveva in mente era tutt’altro che semplice: non compilare un’autobiografia per dirimere e celebrare, ma lavorare, quasi sadicamente, su quell’idea di “mistero” che l’ha sempre circondato e a cui ha dedicato le più amorevoli cure. Sentiva il bisogno di dire di più di sé, mostrare angoli insospettabili della sua personalità, ma solo per convincere il lettore d’essere al cospetto dell’artista definitivo. Peccato che non avesse fatto i conti col bizzarro destino farmacologico nel quale stava per incappare, appena tre mesi dopo aver fatto la conoscenza con il suo biografo, nel frattempo era stato opportunamente parcheggiato in un motel a poca distanza da Pasley Park, la mansion di Prince, con l’ordine d’essere a disposizione ogni volta che fosse giunta “la chiamata”. Così, la parte veramente autobiografica del libro si ferma al punto in cui Prince e il suo scrivano arrivano al momento dell’improvvisa dipartita: la sua infanzia e l’adolescenza, della quale non aveva mai parlato in pubblico, trasformandole nell’ennesimo enigma.

  

Invece ecco le foto di famiglia, i ricordi del padre jazzista, ecco rivelato il segreto della provenienza di quel suo esagerato, compulsivo, isterico gusto estetico, che si ritrova identico nelle istantanee di sua madre, che doveva essere un gran soggetto. Papà e mamma si vestivano per andare a fare i fighetti in città e lasciavano Skipper (il suo nomignolo da piccolo) da solo a fantasticare: presto sarebbe arrivato il suo momento, sarebbe stato il più ganzo del quartiere e le ragazze se lo sarebbero conteso. Per chi ha amato Prince e si è perduto a cercare di risolverne il rompicapo, sono pagine preziose: il suo primo bacio, la sua precoce insofferenza per tutto quel bianco che vedeva in tv, dove nessun eroe aveva mai la pelle nera, le convulsioni di cui soffriva. Poi lo choc del divorzio dei suoi, il sogno che si frantuma, il trasferimento a casa dello zio, un altro musicista, il bassista Andre Cymone. E tutta quella musica che cominciava a ronzargli in testa: JB, Aretha, Ray, Marvin. Una teenage life che somiglia a un conto alla rovescia per l’eccezionalità, eppure immersa in una provinciale normalità. Nel ’77, a 19 anni, Prince firma il primo contratto discografico: suo zio suona ancora il basso con lui, e lui ha raggiunto una statura sufficiente per non incorrere in troppi sfottò. Si spalancano le porte del successo. Qui, d’improvviso, il racconto s’interrompe, anche se l’efficiente Piepenbring s’affanna a mettere in fila un po’ di materiali rari. Ma provate a pensare che sia bellissimo così: il racconto di sé limitato al sofferto e folgorante inizio, quando tutto deve ancora succedere. Morendo senza preavviso, Prince ha creato un’altra gemma di originalità: si è descritto dicendo pochissimo e lasciando oscuro il più. Basta per avere nuova materia su cui continuare a elucubrare attorno al suo contortissimo genio.

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