Così Prince si conquistò da solo la Hall of Fame

Rinaldo Censi
Nel 2004 George Harrison viene accolto nella Hall of Fame. Per onorare l'evento alcune celebrità che l'hanno “introdotto” e sostenuto, suonano uno dei suoi successi più applauditi, While My Guitar Gently Weeps. L'esibizione è una specie di miracolo e contiene in sé una piccola lectio “princeiana”.

Nel 2004 George Harrison viene accolto nella Hall of Fame. Per onorare l'evento alcune celebrità che l'hanno “introdotto” e sostenuto, suonano uno dei suoi successi più applauditi, While My Guitar Gently Weeps. L'esibizione, che potete rintracciare sul YouTube (o guardare qui sotto), è una specie di miracolo e contiene in sé una piccola lectio “princeiana”. Fino al minuto 3 e 28 secondi il brano viene interpretato in maniera canonica. L'inquadratura in totale ci mostra quelle due o tre star ormai un po' attempate, Tom Petty, Jeff Lynne dei Traveling Wilburys e Steve Winwood. Li vediamo lì sul palco, un po' curiali, colti in una fissità che sa di artrite e reumatismi vari, intenti a cucinare diligentemente una minestra un po' scaldata: un brodino per anziani, potremmo dire, con una punta di perfidia. Certo, la melodia esce cristallina, il suono si disperde nell'auditorium liscio, lucidato a dovere: alla voce si alternano Lynne e Petty – occhiali fumé alla Califano, modi melliflui (Lynne indossa un improbabile cappello a secchio – mancano solo gli ami da pesca).


Alle spalle di Petty possiamo notare un ragazzo che arpeggia una chitarra acustica: si tratta di Dhani Harrison, il figlio di George. Ed è proprio lui che ci permette, in anticipo, di comprendere quello che sta per avvenire sul palco. Nel giro di pochi secondi il regista della trasmissione passa con una serie di dissolvenze da un totale a un'inquadratura in piano americano che contiene Lynne, Petty e sul bordo destro Dhani Harrison. Una terza dissolvenza stringe su Petty. Dietro di lui, il figlio di Harrison guarda fuori campo sorridendo. Quello è proprio il momento in cui Petty allunga al microfono il verbo “weep”. Perché in musica è sempre una questione di tempi, e qui facciamo in tempo a comprendere che tra quel verbo disteso e il passaggio ad un'inquadratura in totale, è partito come un razzo un assolo di chitarra. Quest'assolo è l'annuncio di una presa di potere del palco da parte di un tizio vestito come un pappone: colori squillanti, camicia rossa aperta con collo alzato, giacca scura e un cappello rosso sul capo – Prince. Esattamente a metà brano, arriva questo folletto e si impadronisce di tutti gli sguardi, trasformando un omaggio al “maestro” in un'esibizione di puro egotismo. E viene in mente una dichiarazione di John Waters, riferita al Prince attore e regista. A chi gli chiede quale fosse il più brutto film che abbia visto quell'anno, Waters risponde: «Il film più brutto è di gran lunga Under the Cherry Moon, il film di Prince, diretto da lui stesso, e la sua direzione consiste in un primo piano di me». Ma infondo quale artista non soffre di megalomania?


E sul palco Prince che fa? Letteralmente, si mangia le inquadrature. Inizia a flirtare con le telecamere, le seduce muovendosi a ritmo, piegandosi, inscenando un gioco sensuale tra lui e la chitarra, facendola davvero “gemere” per tre minuti. Maneggia il corpo della Telecaster e sposta le dita sulla tastiera creando strane figure, un suono pieno e zigzagante, simile a geroglifici, intarsi da miniaturista. Gli altri lo osservano come si osserva un alieno. Tutti vengono travolti da quest'improvvisa folata di vento, un'euforia che scombussola quella placida recita da casa di riposo. Tanto che Petty e Lynne si ritrovano a piegare le ginocchia, insomma, provano a stargli dietro. E lui? Lui ride divertito. Si inarca e qualcuno da sotto il palco lo sostiene per evitare che caschi giù. Li guarda e ride. Ride di loro? Ride della musica? Gli brillano gli occhi. La sua espressione potrebbe far pensare a qualcosa di estatico. Mi sono fatto l'idea che non sia così. Quell'espressione estatica – se c'è – pare piuttosto disturbata, minata da una sorta di nonchalanche, di sprezzatura: è tutto troppo facile per lui. Nondimeno, quella risata è un'affermazione: sono qua e non mi fermerete. Tanto che potrebbe allungare il brano all'infinito, se volesse. Infatti il pezzo si chiude, rallenta mentre lui è ancora lì a tirare il collo all'ultimo assolo.

 

Il pubblico è in visibilio. E lui che fa? Si gode gli applausi? No, prende la chitarra, la getta in aria e lascia il palco senza vedere dove vada a cadere. Sorride beffardo. Neppure saluta. Sparisce fuori campo.

 

Totale: sei minuti e tredici secondi. Gli altri sono lì, impietriti. Accennano un inchino.


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