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I Beatles, Adele e gli altri in America

Le invasioni britanniche. Cronaca di una guerra in musica

Salvo Toscano

Tre ondate a partire dagli anni Sessanta, quando oltre ai Fab Four e ai Rolling Stones va forte anche il cinema inglese. La rivoluzione dei videoclip che stupisce l'America. Spice Girls e Amy Winehouse: l’energia delle donne

L’invasione, nei giorni di Woodstock, si era già compiuta. Sul palco del festival nell’East Coast che fu il canto del cigno della stagione hippie, insieme ai grandi della musica americana si fecero sentire tra gli altri Pete Townshend e i suoi Who. La leggendaria band londinese suonò nel cuore della notte, era fresco d’uscita la pietra miliare “Tommy”. Quando Roger Daltrey iniziò a cantare il chorus di “See me Feel me” il sole iniziò a sorgere e Townshend aveva già cacciato dal palco a colpi di chitarra l’attivista politico Abbie Hoffman. Gli inglesi s’erano già presi l’America in quei giorni di cinquant’anni fa. Sul palco di Woodstock cantò anche Joe Cocker, da Sheffield, che prese in prestito dai Beatles – i Fab Four ormai agonizzanti avevano declinato l’invito al festival – il boogie scritto da Lennon e McCartney per la voce di Ringo Starr, “With a little help from my friends”, trasformandolo in qualcosa di nuovo che avrebbe resistito al tempo.

 

Gli Who, Joe Cocker: sul palco di Woodstock, cinquant’anni fa, gli inglesi si erano già presi l’America, almeno dal febbraio 1964

“L’invasione britannica questa volta procede con il nome in codice Beatlemania”, dice un giornalista all’arrivo della band inglese

Sì, in quei giorni d’estate del 1969 – che qualcuno sperava di far rivivere quest’estate per un revival che pare in questi giorni sia andato in fumo – la British invasion dell’America si era già perfezionata da un pezzo. E il D-day, su questo esistono pochi dubbi, c’era stato un giorno di febbraio di cinque anni prima. Quando quattro ragazzi con i capelli a caschetto atterrarono al Jfk di New York accolti come messia e inchiodarono mezza America davanti alla tv in una serata in cui la leggenda vuole che il tasso di criminalità nel paese sia sceso fino allo zero: persino i balordi furono travolti quel 9 febbraio 1964 dalla Beatlemania.

 

La storia dell’invasione britannica degli States e di come la vecchia Madrepatria riconquistò la ribelle colonia sul terreno della musica comincia alla fine del 1963. Nessun musicista inglese riesce a sfondare in America. Chi ci prova va a sbattere, inevitabilmente. In Inghilterra, invece, i ragazzi che suonano lo skiffle, il genere delle band adolescenziali dell’epoca, sanno a memoria i pezzi di Elvis, Chuck Berry e Buddy Hollie, che se n’è già andato a 23 anni, precipitando su quel maledetto aereo con Ritchie Valens “il giorno in cui la musica morì”, come lo ricordano ancora gli americani. E’ l’America del rock and roll a dettare legge, ma ancora per poco.

 

Tra quei giovani col ciuffo rockabilly e i giubbotti di pelle che imbracciano la chitarra e cantano “Johnny B. Goode” e “Roll over Beethoven” ci sono anche gli sconosciuti Beatles. Che nel 1962 riescono a strappare un contratto alla Emi e a pubblicare il loro primo singolo. L’anno dopo i quattro di Liverpool conquisteranno l’Inghilterra, dove si comincerà a parlare di Beatlemania. E alla fine di quel 1963 si comincia a fantasticare di uno sbarco oltre oceano. E’ un’impresa, in cui si rischia di rompersi l’osso del collo. I ragazzi lo sanno, il loro manager Brian Epstein però ci crede. Ottiene che il nuovo singolo della band sia pubblicato in America da un’altra etichetta, la Capitol. “I want to hold your hand”, già numero uno in Inghilterra, esce in America a gennaio, piazzandosi all’83esimo posto in classifica. Dopo due settimane il singolo raggiunge il primo posto. La Capitol fiuta l’affare e investe un po’ di soldi in pubblicità: i cartelli con la scritta “Arrivano i Beatles” tappezzano il paese. E alla fine i Beatles arrivano davvero. E’ il 7 febbraio 1964: il D-Day della British Invasion.

 


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All’aeroporto Jfk di New York ci sono migliaia di ragazzi in delirio. Tra l’impazzimento dei fan, John, Paul, George e Ringo vengono portati a una conferenza stampa che si svolge nell’aeroporto stesso. I quattro di Liverpool sono in gran forma, le loro battute conquistano, come quando Ringo a chi gli chiede se ama Beethoven risponde: “Sì, mi piacciono le sue poesie”, o quando George alla domanda se i Beatles taglieranno i capelli prontamente ribatte: “Io li ho tagliati ieri”. Risate dei giornalisti e John aggiunge: “Avresti dovuto vederlo l’altro ieri”. Il corrispondente della Cbs Evening News conierà quel giorno l’espressione “British Invasion”: “L’invasione britannica questa volta procede con il nome in codice Beatlemania”, disse.

 

Gli Stati Uniti, scioccati e incupiti per l’assassinio di John Kennedy a Dallas, ritrovano una ventata di spensieratezza

L’8 maggio del 1965 nella top ten dei dischi più venduti degli Stati Uniti, nove erano britannici, uno solo americano

E si arriva così al 9 febbraio. I Beatles sono ospiti del programma televisivo Ed Sullivan Show. Circa 700 i posti per gli spettatori nello studio di Brooklyn, cinquantamila le richieste che arrivano per esserci. I Favolosi quattro suonano cinque canzoni, tutti i record d’ascolto sono polverizzati: 73 milioni di telespettatori, mezza America, restano incollati davanti alla tv per i quattro ragazzi inglesi.

 

Gli Stati Uniti scioccati e incupiti per l’assassinio di John Kennedy a Dallas, avvenuto meno di tre mesi prima, ritrovano una ventata di spensieratezza. E le stroncature dei giornali americani nulla possono di fronte all’uragano inglese che travolge il paese in quelle tre settimane. Anche “She loves you” raggiunge in pochi giorni la vetta delle classifiche. Racconterà molti anni dopo Paul McCartney in una deliziosa puntata del “Carpool Karaoke” di James Corden girata a Liverpool nella sua vecchia casa, del giorno in cui lui e il socio Lennon composero la canzone e tutti eccitati, una volta terminato il lavoro, la fecero sentire al padre di Paul. Che commentò: “Carina, ma perché questo yeah yeah yeah che suona così... americano? Non potreste dire semplicemente ‘yes’?”.

 

La British invasion cominciò così. E divenne presto inarrestabile. Un anno dopo, l’8 maggio del 1965 nella top ten dei dischi più venduti degli Stati Uniti, nove erano britannici, uno solo americano. I Rolling Stones di Mick Jagger arrivarono al numero uno otto volte. La loro musica soul rock che affondava così profondamente le radici nel R&B made in America conquistò le nuove generazioni e divenne presto, con i suoi ricami di chitarra elettrica e i suoi testi che concedevano licenze alla lascivia, un sinonimo di trasgressione, mal tollerata dalle vecchie generazioni conservatrici (“Dove siete stati finora, ad ascoltare musica dei Rolling Stones e a parlare male del vostro paese?”, ringhiava alle sue reclute il sergente istruttore Foley in una scena cult di “Ufficiale e gentiluomo”).

 

 

E l’invasione, non poteva essere altrimenti, non si fermò alla musica. Tra il 1964 e il 1965 agli Oscar trionfano “Mary Poppins” e “My fair Lady”, con le star britanniche Julie Andrews e Audrey Hepburn. Il James Bond interpretato da Sean Connery, quintessenza del fascino british sbanca il botteghino in quegli anni. E in un decennio, quattro film inglesi – tra cui il kolossal “Lawrence d’Arabia” – vincono l’Oscar per il miglior film. Anche la moda risentirà del fenomeno: sono gli anni della minigonna dell’inglese Mary Quant e delle prime top model come Twiggy. Nel 1966 gli inglesi organizzano e vincono pure i Mondiali di calcio: questo in realtà riguarda poco o nulla gli americani, che guardano al “soccer” come a una stravaganza europea, ma contribuisce a dar lustro all’età di splendore dell’ex impero.

 

Non che gli americani rimasero a guardare. In quegli anni gli States esprimono talenti musicali che a loro volta sedurranno l’Europa. Ci sono Jimi Hendrix (i Beatles ne saranno conquistati), Joan Baez, Janis Joplin e poi, sul finire dei Sessanta, i Doors di Jim Morrison e il geniale Frank Zappa, tanto per fare qualche nome. E si delinea quella non troppo sottile differenza tra la musica secondo gli americani e quella british, una dicotomia che resisterà al tempo e caratterizzerà la storia del rock e del pop nei decenni successivi, seppure tra commistioni e reciproche influenze. L’istinto, la naturalezza, una certa insofferenza verso le regole degli americani, individualisti per antonomasia. La disciplina, l’applicazione, la cura per la forma e la ricerca della canzone perfetta, che è invece presente nel lavoro dei britannici, un retaggio imperiale che si traduce negli studios in una ricerca di equilibrio e novità (in una parola sola, mai ben digerita in certi ambienti americani, il “pop”) che i Beatles interpretarono come nessuno ma che tornò a conquistare i territori d’oltreoceano una decina d’anni dopo, con la Nuova Onda che travolse e contagiò anche l’America sulle note, squisitamente English, del post punk.

 

Per convenzione, l’era della British Invasion si fa terminare con la fine dei Sixties. Eppure, in quel leggendario 1969, l’anno che cambiò la musica, quando dal possente arbusto cresciuto nel decennio dei Beatles cominciano a diramarsi i nuovi figli del rock, quei generi che domineranno la scena nel decennio successivo, gli inglesi sono ancora protagonisti. I Pink Floyd dominano e domineranno la scena psichedelica (il ‘69 per loro è l’anno di “Ummagumma”), David Bowie pubblica “Space Oddity” e si prepara a essere il profeta del glam rock, i Led Zeppelin pubblicano in un anno i loro primi due album: la chitarra di Jimmy Page e la batteria di John “Bonzo” Bonham diventano subito il sound di riferimento dell’hard rock. E ancora in Inghilterra emette i primi vagiti sempre quell’anno sua maestà il progressive, il genere che nei primi Settanta spadroneggerà la scena rock, e che si fa risalire all’uscita di “In the Court of the Crimson King”, dei King Crimson (in cui milita Greg Lake, che da lì a pochi mesi creerà con Keith Emerson e Carl Palmer il “supergruppo” che spopolerà nei Settanta). I rami dell’albero del rock che spuntano in quell’ultimo anno dei Sessanta hanno però anche linfa squisitamente americana. Come nel caso del rinnovamento del folk rock con Crosby, Stills & Nash e soprattutto con gli albori della fusion, che i critici datano proprio al 1969 con due album storici, “Hot Rats” di Frank Zappa e “In a silent way” di Miles Davis. La fusione tra gli stilemi jazz e gli strumenti del rock prese le mosse da lì per proseguire nel decennio a venire.

 

C’è però un terreno in cui in quegli anni gli americani mantengono il primato sui britannici, resistendo a ogni forma d’invasione. E’ un’enclave, un po’ come quella del country, che vede i nordamericani soverchiare nettamente per numero i britannici: la musica autoriale. E sì, perché pur non mancando in quest’ambito inglesi di qualità, la canzone d’autore vede tra statunitensi e canadesi una tale quantità di nomi altisonanti che non lascia davvero spazio all’invasore. Dal menestrello poi premio Nobel Robert Zimmerman in arte Bob Dylan, proseguendo per una lunga sfilza (solo a titolo esemplificativo: Paul Simon, Leonard Cohen, Lou Reed, James Taylor, Tom Waits, Neil Young, Patti Smith, Carole King), i cantautori nordamericani diventano dai Sessanta in poi i cantori delle contraddizioni della complessa società a stelle e strisce, attraversando spesso e volentieri nei loro testi problematici e sofferti i confini tra musica e letteratura, mentre al di qua dell’Atlantico i musicisti inglesi si dedicano ad altro.

 

Quello dell’invasione britannica però non è un capitolo che per gli Stati Uniti si chiude davvero con la fine dei Sessanta. E non solo per gli scenari dei primi Settanta sopra descritti che vedono gli inglesi in prima linea nella scena mondiale. Ma anche perché da lì a una decina d’anni, arriva quella che verrà chiamata la Second British Invasion. Stavolta l’invasore viaggerà sull’onda, anzi sulla Nuova Onda (“New Wave” si chiamerà quel fenomeno), delle sonorità dei primi Ottanta, che conquisteranno gli States grazie ai video musicali, quelli trasmessi da Mtv, quelli con cui i britannici riusciranno ancora una volta a stupire gli Usa.

 

I video, su cui gli americani scontano un impressionante ritardo rispetto agli inglesi, diventano il cavallo di Troia con cui nuovamente le band britanniche si fanno strada nelle charts. L’era post punk ha visto alla fine dei Settanta l’esplosione dei Dire Straits e dei Police con “Sultans of swing” e “Roxanne”, che dall’Inghilterra hanno fatto irruzione nei piani alti delle classifiche americane. Un primo assaggio. Poi, proprio come l’aereo dei Beatles poco meno di vent’anni prima, è nella Città che non dorme mai che l’invasore atterra e si fa strada. Con l’inizio degli Eighties, infatti, nelle discoteche di Manhattan si comincia a ballare sulla musica dance britannica: il New Yorker alla fine del 1981 parla di “Anglophilia” nell’ambiente underground. E’ l’antipasto della “seconda ifnvasione” che esploderà nel 1982, quando a luglio “Don’t you want me” degli Human League resterà tre settimane in testa alla Hot 100 americana, spinta proprio dal suo video su Mtv. Look androgino, ritmi synthpop, videoclip che sono brevi film curatissimi, le band inglesi dall’82 all’86 si prenderanno un’altra volta l’America grazie alla tv. Sono gli anni dei Duran Duran, di Billy Idol, di “Total eclypse of the heart” di Bonnie Tayler, delle Bananarama con la loro “Venus”. “Tainted love” dei Soft Cell resta per 43 settimane in classifica. In breve non si parla più di Nuova Onda ma semplicemente di “New Music”: Culture club, Simple Minds, Eurythmics, Tears for Fears, l’America risuona di nuovo di note britanniche.

 

 

L’istinto, la naturalezza, una certa insofferenza verso le regole degli americani. La disciplina, la cura per la forma dei britannici

La gara sul piano della solidarietà. Il 2015 l’anno record: gli artisti inglesi hanno sfiorato il 18 per cento del mercato degli album in America

L’androginia di Boy George e Annie Lennox, i ritmi ballabili degli Wham di George Michael, il sound cool della chitarra di Mark Knopfler (“Brothers in Arms”, l’album più importante dei Dire Straits, sbanca i Grammy), tutto conquista gli States, dove anche le radio orientate a un’audience black trasmettono in abbondanza la “Nuova musica”. Pure i mostri sacri inglesi già affermati conoscono in quegli anni una crescita della loro popolarità in America, dai Queen agli Stones, da Bowie agli ex Beatles McCartney e Harrison.

 

La gara tra le due sponde musicali dell’Atlantico si sposta in quegli anni anche sul terreno della solidarietà. A Natale del 1984, nel pieno dello strapotere della Nuova Musica, il supergruppo britannico e irlandese “Band Aid” promosso da Bob Geldof incide “Do they know it’s Christmas?” per raccogliere fondi per combattere la fame in Etiopia, dopo una serie di servizi choc della Bbc sulla carestia nel paese africano. Il disco natalizio fu uno straordinario successo e sulla sua scia Geldof l’anno dopo organizzò il Live Aid. C’erano un po’ tutti a cantare, da Sting a Bono Vox, i Duran e gli Spandau Ballet, Paul Young e Phil Collins. Gli americani non rimasero a guardare. Tre mesi dopo uscì “We are the world”, scritta da Michael Jackson e Lionel Ritchie e prodotta da Quincy Jones. Il top, insomma. Schierando un dreamteam da paura con il nome “Usa for Africa”: Ray Charles, Bruce Springsteeen, Stevie Wonder, Paul Simon, Bob Dylan, Diana Ross, Tina Turner, Billy Joel e tanti altri, come a voler ristabilire le gerarchie.

 

Sì, gli americani non stanno a guardare. E signori dello showbiz capiscono presto la potenza del videoclip, lo interpretano da maestri, e con Michael Jackson, Madonna e Prince si riprendono la scena del pop dall’invasore albionico. E nella seconda metà degli Ottanta, anche la seconda invasione viene archiviata.

 


In cima alle classifiche. Gli inglesi assorbono rock and roll o soul, li rielaborano e conquistano l’America, che ritrova in quelle sonorità anche il proprio Dna


 

Ma la storia della guerra atlantica della musica leggera certo non finisce lì. Cominciano i Novanta. E’ il decennio dell’alternative rock americano, che con la sua forza esplosiva conquista le giovani generazioni anche in Europa. L’era del “grunge”, il sound di Seattle, ristabilisce per qualche anno la centralità degli States, Kurt Cobain dei Nirvana è l’icona generazionale di questa stagione che vive di introspezione, sincerità (fino all’estremo), suoni sporchi (il termine gergale “grunge” questo significa) e distorti. Sono anche gli anni della golden age hip hop, i rapper newyorchesi dettano legge in una pratica tutta americana. L’America delle strade del Bronx e dei garage dello stato di Washington con la sua genuina voglia di raccontare il malessere giovanile ritorna all’autarchia musicale in un fiorire di band che resisteranno al tempo, dai Pearl Jam ai Red Hot Chili Peppers.

 

Ma qualcosa di importante poco dopo si muove anche nelle isole britanniche. Quando nell’Inghilterra smarrita del dopo Thatcher, mentre il potere dei Tories sta per esalare l’ultimo respiro col governo Major, e Tony Blair scalda i motori per aprire da lì a qualche anno la lunga stagione del New Labour, nasce ancora qualcosa di nuovo. Lo chiameranno Britpop, conquisterà il Regno Unito e da lì l’Europa. E’ un genere revival delle melodie del pop inglese dei Sessanta e dei Settanta, che attinge a man bassa dai Beatles. Tutto comincia nel 1994 ed esplode nel 1995 con la “band battle”, la rivalità, pompata dai tabloid britannici, tra gli Oasis dei fratelli Gallagher e i Blur di Damon Albarn. E poi gli altri. I giornali inglesi la chiamano l’era della “Cool Britannia”, lo sfoggio dell’Union Jack da parte dei musicisti pop (dalla chitarra di Noel Gallagher all’abitino sexy di Geri Halliwell delle Spice al gala dei Brit Awards 1997) diventa un vezzo che testimonia un ritrovato orgoglio nazionale. Stavolta però, l’America resta abbastanza lontana. Non c’è nessun D-day del Britpop, non c’è una “terza invasione”. Dirà Noel Gallagher anni dopo con la consueta affettuosità verso il detestato fratello Liam, cantante della band, che agli Oasis per sfondare in America è mancato il frontman giusto. In realtà, negli States i singoli del 1995 degli Oasis si piazzarono discretamente bene in classifica, ma il paragone con il successo travolgente dei Beatles fu impietoso. Peggio ancora dei rivali fecero negli Usa i Blur.

 


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Qualcosa di very English però solo un paio di anni dopo, nella seconda metà dei Novanta, arriva eccome negli States. E’ l’energia di un insolito quintetto tutto femminile, le Spice Girls. Le cinque grintose ragazze si prendono la vetta della classifica americana con il singolo “Wannabe”. E nel 1997 l’album “Spice”, che ha già fatto il pieno in Europa, sarà l’Lp più venduto dell’anno negli Stati Uniti. Anche l’ex Take That Robbie Williams riesce a sfondare oltre oceano. Ma le dimensioni del fenomeno non sono sufficienti per parlare di un’altra “invasion”. E sfumati i Novanta, si arriva all’aprile 2002 quando per la prima volta dopo una vita nessuna delle canzoni della Hot 100 di Billboard è di un artista britannico.

 

C’è un’enclave, un po’ come quella del country, che vede gli americani soverchiare per numero i britannici: la musica autoriale

La New Wave dei primi anni Ottanta. Nelle discoteche di Manhattan si comincia a ballare sulla musica dance britannica

Si giunge così al Ventunesimo secolo. E al decennio scorso, quando qualcuno parlò, forse con uno slancio eccessivo, di “Third British Invasion” di fronte al successo dei musicisti britannici R&B e soul come Amy Winehouse (che vinse cinque Grammy in una notte sola, nel 2008), Estelle, Joss Stone e gli altri (ma più opportuno sarebbe dire “le altre”, perché a parte Jay Sean quasi tutti quegli interpreti di successo erano donne) che come loro conquistano piazzamenti importanti nelle classifiche americane. La chiamarono anche “Soul invasion”, e in effetti ebbe qualcosa in comune con la prima invasione dei Sixties. Come allora, infatti, gli inglesi avevano assorbito il repertorio americano (il rock and roll la prima volta, il soul in quest’alba di Ventunesimo secolo), ne erano stati influenzati, lo avevano rielaborato e lo interpretarono a modo loro conquistando gli States che ritrovavano in quelle sonorità anche il proprio Dna.

 

Fino ai giorni nostri e ai successi americani di Adele, Ed Sheeran e Sam Smith. Sheeran due anni fa conquista il record assoluto di permanenza nella top ten di Billborad negli Usa: la sua “Shape of you” debutta da subito al numero uno e resta per 33 settimane tra i primi dieci singoli, nessuno come lui. Il primo posto in classifica nella settimana d’uscita era riuscito due anni prima alla connazionale Adele, una delle poche donne della storia ad avere tre singoli in top ten negli Usa. La cantante londinese è premiata come artista dell’anno da Us Billboard nel 2011, vince l’Oscar nel 2013 per “Skyfall” (Mr Bond colpisce ancora: anche Paul McCartney e i Duran Duran avevano sbancato le classifiche americane con le loro canzoni dai film dell’agente 007), nel 2015 diventa la prima artista a vendere più di tre milioni di copie in una settimana negli Stati Uniti. E quel 2015 rimane l’anno record per la musica britannica negli Usa, in cui gli artisti inglesi hanno sfiorato il 18 per cento del mercato degli album in America, un primato assoluto: l’ennesima piccola grande battaglia vinta di una lunghissima e appassionante guerra d’invasione in casa del Colosso.

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