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L'ultimo concerto. Motta si ritira dalle scene perché “la verità richiede tempo”

Simonetta Sciandivasci

“La verità ha bisogno di tempo, spero che capirete”. Un altro indie millennial se ne va, ma non per sempre

Roma. Sabato sera, Francesco Motta è salito sul palco dell’Auditorium Parco della musica, sala Santa Cecilia – “il posto più bello dove fare musica in Italia” – e ha suonato il suo ultimo concerto. L’aveva annunciato da mesi, l’aveva chiamato “Per l’ultima volta”, aveva scritto che però “per l’ultima volta non significa fine” (un saggio filosofico in sei parole) ma ci eravamo allarmati lo stesso (ma come, di già, ma non si sarà ammalato?), o infastiditi (ma guarda questo fighetto quant’è millennial, 33 anni, due dischi, una targa, tre anni di successo, qualche altro di gavetta, e già non ha più niente da dire, già non regge più?). Sbagliavamo. A due pezzi dalla fine del concerto che avrebbe voluto durasse una settimana (e invece è durato meno di due ore), Motta ha detto che finalmente ha trovato il coraggio di fermarsi e che farlo gli servirà per cercare altre cose da dire. Cose vere. “La verità ha bisogno di tempo, spero che capirete”. Sollievo in sala, molti applausi, e nessun dubbio che altre verità Motta potrebbe non trovarne, e in quel caso cosa faremo, resteremo con due dischi che ci diranno per sempre che ventenni in ritardo e poi trentenni infelici e poi quarantenni in anticipo siamo stati, noi che se ci chiamano ragazzi ci fa un po’ male il cuore (l’ha scritto lui, è il verso della condizione umana adesso).

  

Motta è uno dei più bravi di quelli che l’indie lo hanno cominciato a fare negli scantinati e poi lo hanno tirato fuori di lì e adesso vanno a Sanremo, riempiono palasport e auditorium, cambiano nome, si scindono, si fermano, scrivono romanzi, vanno a “Carta Bianca” a parlare di reddito di cittadinanza (la settimana scorsa Lodo Guenzi e un altro dello Stato Sociale erano lì a dire quali dovrebbero essere le priorità del governo, premettendo che “noi ci occupiamo di comunicazione, non di politica”).

 

 

Motta no, niente multitasking, niente comunicazione e niente rock’n’roll, o forse un rock’n’roll nuovo, diverso, fuori dai cliché, proprio lui che sembrava incarnarli tutti, con il corpo dinoccolato e la faccia da Joey Ramone che si ritrova, l’antipatico vagheggiare che aveva quando lo intervistavano, la cupezza torbida di certi pezzi. Sabato, invece, sul palco c’era un adulto responsabile che ringraziava suo padre e sua madre (cosa che ha sempre fatto, dagli esordi), sua moglie Carolina Crescentini (si sono sposati qualche settimana fa, più o meno come Piero Pelù, l’irriducibile che in Gioconda diceva che l’anello no, non te lo do), i suoi suoceri (con tanto di promessa: “Farò di tutto per vostra figlia”), e naturalmente i fan. Ha pianto al secondo pezzo, all’ultimo, a quelli di mezzo, agli applausi. Sembrava una festa di laurea. Rockol ha scritto che sarebbe potuto sembrare un funerale e invece non lo è stato, d’altronde Motta non è Francesco Totti, l’indie non è l’As Roma.

 

“Per l’ultima volta” s’è tenuto il giorno dopo il FridayForFuture dei ventenni che vogliono salvare il pianeta e sono convinti che per farlo ci vogliano intransigenza, fermezza, responsabilità personale. Ventenni così vicini e così lontani dai trenta-quarantenni che Motta ha cantato perfettamente, da dentro, e che si sentono spacciati, falliti, e irrisolvibili da sempre, da prima di provarci, giovani in ritardo e vecchi in anticipo, mai in tempo, mai in linea– “abbiamo vinto un’altra guerra, non quella che volevi tu” –, mai felici o forse (peggio) incapaci di capire cosa significhi esserlo – “ed è un po’ come essere felice, ed è quasi come essere felice” –, mai appagati, costantemente in costruzione e disfacimento – “mi immaginavi diversa eppure sono contenta in equilibrio perfetto tra quello che ho perso e quello che ho scelto”. Che grande cantautore è stato, finora, Motta. Chissà come sarà, quando tornerà, se “finalmente risolto” o “già innamorato ancora una volta”. Che poi sono i due poli entro cui ci muoviamo tutti noi che lagniamo la fine dei vent’anni da prima di compierli, e ce ne siamo accorti quando è arrivato lui e ci ha cantato che eravamo rimasti così a lungo fermi a cercare di non sbagliare strada che l’unica cosa che poi ci è rimasta da fare è stata cercare parcheggio. Noi che quando c’è il sole perfetto vogliamo la luna, quando c’è l’amore vogliamo la carriera, quando c’è il presente vogliamo il futuro, quando c’è il futuro vogliamo il passato. Che strazianti, innervosenti Oblomov siamo stati, ma che bellissimi dischi abbiamo fatto scrivere. E non è poco, ecco una cosa che “racconteremo ai figli che non avremo”, caro Vasco Brondi: abbiamo ispirato grandi canzoni, di quelle oneste, di quelle con cui non si fan rivoluzioni però si può fare poesia, una cosa che è una gran bella verità.

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