Copertine leggendarie. Da Abbey Road a Nevermind la musica non si ascolta, si guarda

Hanno iniziato i Beatles negli anni Sessanta a fare di ogni album un’opera d’arte. Poi è arrivata la pop art di Andy Warhol che ha rivoluzionato tutto. Indagine sui dieci dischi che hanno fatto la storia

Salvo Toscano

Era l’8 di agosto del 1969, c’era il sole a Londra. I quattro ragazzi di Liverpool avevano dieci minuti per quello scatto. Di più non si poteva, disse il poliziotto che fermò il traffico in Abbey Road. Attraversarono la strada sei volte, dando a Ian McMilian il tempo di scattare quante più foto poteva. La migliore divenne una delle più famose copertine della storia della musica. Quasi quanto quella, leggendaria, che i Beatles avevano messo su per Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, due anni prima, con una variopinta galleria di personaggi alle spalle dei quattro con indosso i costumi della banda di ottoni.

 

Quello scatto sulle strisce pedonali di cui si celebreranno i cinquant’anni tra pochi giorni divenne un’icona e resta ancora una delle copertine cult di pop e rock. Imitatissima, suggestiva, persino misteriosa, la copertina di “Abbey Road” mezzo secolo dopo continua a essere celebrata da fiumane di fan che cercano ogni giorno di riprodurre lo scatto sull’attraversamento pedonale (con buona pace dei pazienti automobilisti londinesi, rassegnati al continuo viavai).

Ricordare la fotografia di “Abbey Road” in questo cinquantesimo anniversario, è un ottimo pretesto per percorrere un breve viaggio tra le copertine che hanno fatto la storia della musica. C’è solo l’imbarazzo della scelta: ne abbiamo individuate arbitrariamente dieci. Facendo partite il nostro tour proprio dalle strisce pedonali di fronte agli studi di registrazione della Emi a Londra.

 

The Beatles, “Abbey Road” (1969)

Per i Favolosi Quattro, il 1969 è l’anno della fine. Che sarà annunciata ufficialmente al mondo nella prima metà del 1970, ma che tra i quattro si consumerà quell’anno. Dopo le registrazioni dell’album-documentario che doveva chiamarsi “Get back” e alla fine sarà “Let it be”, un’idea del solito Paul McCartney che si rivelerà per certi versi non felicissima, i Beatles tornano in sala d’incisione negli studi della Emi ad Abbey Road per registrare quello che sarà il loro ultimo disco. Il penultimo in ordine di pubblicazione, perché “Let it be” uscirà, dopo una laboriosa post produzione, solo mesi dopo. Ma l’ultimo per realizzazione. E ad ascoltarlo, cinquant’anni dopo, sembra davvero incredibile che quel lavoro corale sia il frutto del lavoro di quattro persone ormai arrivate al termine della loro avventura insieme, perché la qualità musicale dell’album, soprattutto dal punto di vista dell’esecuzione, è straordinaria e forse raggiunge l’apice nella produzione del quartetto.

 

Il disco fu registrato tra aprile e l’estate. John Lennon era all’epoca molto preso dalle sue iniziative pacifiste con Yoko Ono (ma si presentò in studio con due pezzi rock grandiosi che resistono meravigliosamente al tempo, Come together e I want you). George Harrison aveva raggiunto una piena maturità da compositore – le canzoni migliori dell’album sono sue – e i Beatles gli stavano sempre più stretti, con due soci ingombranti come Lennon e McCartney che lasciavano pochissimo spazio. Insomma, a parte il buon Ringo, sempre pronto alla sua batteria, è Paul a tirare la carretta, come accade da un pezzo all’interno della band. McCartney ha l’idea del lungo medley del lato B, che cuce insieme canzoni non completate per riempire l’album. Il risultato, malgrado Lennon non lo amasse, fu notevole.

 

Per il titolo del disco si fecero più ipotesi. Le prime furono “Four in a bar” e “All good children go to heaven”, poi prese quota, è il caso di dire, l’idea “Everest”, che era la marca di sigarette fumata dal tecnico del suono dei Fab. Nessuno però aveva voglia di finire in Asia per scattare la foto di copertina e così Ringo Starr, proprio scherzando sull’idea dello spostarsi il meno possibile, propose “Abbey Road”. McCartney, che indossava i sandali quel giorno, se li tolse. La foto divenne un’icona. Imitatissima. Dai Simpson ai Red Hot Chili Peppers, tantissimi non hanno resistito alla tentazione di imitare i Beatles. In quell’immagine che divenne un pilastro della teoria complottista della Paul-is-dead-mania. In quegli anni, infatti, si diffuse la leggenda metropolitana della morte di McCartney, che sarebbe stato sostituito da un sosia dopo un fatale incidente stradale. A sostegno della bufala, gli appassionati cercavano indizi tra le canzoni della band, come il fantomatico “I’v Buried Paul” (“ho sepolto Paul”), pronunciato da Lennon nella coda di “Strawberry fields forever”, che in realtà era “cranberry sauce”, salsa di mirtillo. La copertina di “Abbey Road” divenne il caposaldo della teoria sulla morte di Paul perché fu letta come l’immagine allegorica del suo funerale. McCartney è l’unico a piedi scalzi e l’unico che non ha lo stesso passo dei compagni. Lennon apre il corteo vestito di bianco, come un sacerdote, Ringo lo segue in nero, l’impresario delle pompe funebri, Paul in mezzo, il morto, e George a chiudere in jeans, abiti da lavoro, è il becchino, l’undertaker. Sullo sfondo c’è parcheggiato anche il famoso Maggiolino, che in inglese si chiama Beetle, targato LMW28IF. I fan della teoria PID (Paul is dead) tradussero in “Linda McCartney widow” o “Linda McCartney weeps”, piange per la morte del marito. E “28 IF” fu letto come 28 anni se… non fosse morto. Peccato che nell’agosto del 1969 Paul di anni ne aveva 27. Ci credettero comunque in tanti. E in tanti ci credono ancora.

 

The Beatles, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967)

Per parlare di copertine leggendarie nell’anniversario dello scatto di Abbey Road non si può fare a meno di fare un passo indietro nella storia, a due anni prima. Perché in nessuna ideale rassegna di copertine da antologia potrebbe mai mancare quella che è universalmente considerata come la più importante di sempre. E’ quella che i Beatles realizzarono per il loro album più famoso, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ossia la “banda del club dei cuori solitari del Sergente Pepe”. Questo lp, posto da Rolling Stone al numero uno nella classifica dei 500 album più importanti della storia della musica, segna la svolta nella storia del quartetto di Liverpool. Nel 1966 i Beatles chiudono l’èra dei tour. Tornano dalle vacanze estive con un look tutto nuovo. Non ci sono più caschetti, sui loro volti sono apparsi dei baffi, John Lennon ha abbandonato le lenti a contatto per inforcare i suoi occhiali tondi, “granny lenses” li chiamano. La loro musica ha già avviato un percorso di trasformazione con gli ultimi due album, l’affascinante “Rubber Soul” e l’ispirato “Revolver”. Il cammino di trasformazione si completa con il nuovo disco che uscirà nel giugno 1967. L’idea di interpretare una banda di ottoni d’altri tempi è di Paul. Il gruppo si presenta all’inizio del disco e introduce in pompa magna il suo cantante, “l’unico e solo Billy Shears”, che è poi Ringo Starr che intona il gioiellino “With a little help from my friends”, composta su misura per lui dai soci Lennon & McCartney. Il disco, uno dei primi concept album della storia, prosegue con effetti elettronici, sperimentazioni, sonorità mai sentite in un lavoro dei quattro, tra psichedelia e pop barocco. Fino alla sontuosa chiusura con “A day in the life”, forse il capolavoro assoluto della band, che cuce insieme due pezzi, una ballata di struggente bellezza di Lennon e un brillante inciso autobiografico di McCartney, con in mezzo un’orchestra impazzita in cui tutti gli strumenti suonano le note dalla più bassa alla più alta del pentagramma in modo volutamente scoordinato, creando un possente vortice di trambusto.

 

Un’opera così nuova necessitava una copertina speciale. E così fu. Il disco si presentò ai fan con una copertina apribile che sul retro aveva stampati i testi delle canzoni, per la prima volta. Sul fronte il celeberrimo scatto con i quattro che indossano i costumi colorati di questa fantomatica banda d’ottoni. Dietro di loro un collage di personaggi quanto mai variegato, icone come Albert Einstein, Karl Marx, Marlon Brando, Edgar Allan Poe, Stanlio e Ollio e molti altri. C’è persino il satanista Alistair Crowley. Lennon voleva anche Gesù, Hitler e Gandhi ma la Emi non volle saperne. E poi ci sono i fiori, i simboli orientali, le statue di cera dei quattro: un’esplosione di colori e fantasia. Realizzata su idea di McCartney da Jann Haworth e Peter Blake, vinse il Grammy 1968 per la migliore copertina. Rolling Stone l’ha posta al numero uno anche nella classifica delle cento migliori copertine di album di tutti i tempi, noblesse oblige.

 

The Velvet Underground & Nico, “Velvet Underground” (1967)

Nel 1967 erano stati pubblicati due album le cui copertine avrebbero fatto storia. Oltre a Sgt. Pepper’s, sicuramente non paragonabile per successo alla pietra miliare beatlesiana (32 milioni di copie vendute) è l’album di debutto di una giovane band americana, registrato in collaborazione con la cantante tedesca Nico. Loro sono i Velvet Underground, il loro cantante e chitarrista si chiama Lou Reed e da lì a breve si consacrerà come uno dei più grandi autori di canzoni della musica nordamericana. Il disco fa la storia, influenzerà enormemente chi verrà dopo, perché introduce tematiche innovative nei testi, trattandole in modo diretto ed esplicito, dalle perversioni sessuali alla droga.

 

L’album viene prodotto da Tom Wilson e da Andy Warhol, ed è proprio l’artista americano figura dominante della Pop Art a disegnarne la celebre copertina con la banana, un simbolo sessuale che richiama alla perfezione i testi “per adulti” di Lou Reed. Sulla copertina c’era solo la famosa banana, non appariva né il nome del gruppo né quello della casa discografica, ma solo il disegno e la firma dell’artista. La trasgressione musicale si intrecciava con la trasgressione dell’arte visiva. Addirittura nelle prime edizioni si poteva “sbucciare” il frutto, scoprendo una ambigua banana rosa chocking. Il disco fu un insuccesso commerciale ma col tempo divenne un cult, una fonte di ispirazione e l’icona di una stagione.

 

The Rolling Stones, “Sticky Fingers” (1971)

C’è ancora lo zampino di Andy Warhol in questa cover che fece scalpore. L’album di Jagger e compagni conquisterà la vetta delle classifiche sia britanniche sia americane, “Brown Sugar”, che apre il disco, diventerà una grande hit delle Pietre rotolanti. La copertina del disco è un’idea di Andy Warhol: mostra un paio di jeans con un evidente rigonfiamento all’altezza dei genitali. E in una versione del disco, la cerniera era persino apribile. All’interno è presente il celeberrimo “Tongue & Lip” (le labbra e la lingua di Jagger) disegnato da John Pasche, che diventa l’icona degli Stones, e ancora la versione più spoglia della copertina con il modello in mutande, con il rigonfiamento ancora più in mostra. A scattare le foto fu Billy Name mentre il design, su indicazioni di Warhol, è di Craig Braun. Si pensò che il “pacco” della foto fosse dello stesso Jagger ma si trattava in realtà di Joe Dallessandro, un modello-attore caro a Warhol dai trascorsi più che piccanti, che Lou Reed evocò in alcuni versi della celebre “Walk on the wild side”, chiamandolo con il suo soprannome “Little Joe” (“Little Joe non lo ha mai dato via gratis / tutti hanno dovuto pagare, e pagare: una marchetta qua e una marchetta là”). Nella Spagna franchista la copertina fu ritenuta troppo osé e venne sostituita da un’altra immagine.

 

Pink Floyd, “The Dark Side of the Moon” (1973)

Il nostro viaggio cominciato da Abbey Road continua dallo stesso identico luogo da cui è partito. Cioè gli studi della Emi di Abbey Road dove nel 1972 i Pink Floyd registrarono il loro capolavoro. La band britannica, già affermata all’epoca come riferimento della psichedelia, affida le cure dell’album ad Alan Parsons, tecnico del suono che aveva già lavorato agli ultimi dischi dei Beatles. L’album viene lavorato in due sessioni, a maggio del 1972 e a gennaio del 1973. Uscirà a marzo di quell’anno, prima negli Stati Uniti e poi nel Regno Unito.

 

Per la copertina lo studio fotografico Hipgnosis propose diverse alternative alla band. I Pink Floyd concordarono nello scegliere l’immagine del prisma triangolare rifrangente un raggio di luce sul fronte. Il disegno metteva insieme vari elementi, dall’illuminazione dei concerti della band, alla volontà del gruppo di realizzare un progetto “semplice e audace”. Il tastierista Richard Wright aveva chiesto un’immagine chiara ed essenziale. La ottenne e quell’immagine disegnata da George Hardie sviluppando un progetto di Storm Thorgerson divenne un’icona stampata nella memoria di tutti gli appassionati di musica. Il fascio di luce ha sei colori, escludendo l’indaco dalla tradizionale divisione della sequenza in rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e viola. La linea verde si muove come un elettrocardiogramma, idea proposta da Roger Waters, i cui testi profondi sono rappresentati dal triangolo (“simbolo di pensiero e ambizione” per Thorgerson) nella famosa copertina.

 

David Bowie, “Aladdin Sane” (1973)

Il Duca Bianco ritratto in questa copertina divenne una delle immagini più iconiche della pop art. Il disco, l’ideale diario di viaggio di un europeo negli Stati Uniti, fu il primo numero uno in classifica nel Regno Unito per Bowie e vendette più di quattro milioni di copie. È il disco in cui il Duca si sbarazza del suo alter ego Ziggy Stardust per entrare in una nuova fase creativa. Il fil rouge era proprio l’insanità, quella che appariva mascherata nel gioco di parole del titolo (Aladin sane sarebbe “a lad insane”, un tipo matto). Molto del suo successo lo dovette alla sua splendida copertina: la foto del cantante a torso nudo e con gli occhi chiusi fu realizzata da Celia Philo e Brian Duffy. Il volto truccato dell’androgino Bowie, con i capelli rosso fuoco, la faccia divisa in due da una saetta rossa e blu e una lacrima che scivola lungo la spalla, divenne una specie di Gioconda del pop.

 

Patti Smith, “Horses” (1975)

L’album di debutto di Patti Smith fu pubblicato a novembre del 1975. Siamo nel pieno della stagione del punk rock, nell’onda di quel movimento che sovverte e capovolge l’ordine costituito. La scena underground di New York è in grande fermento. La musicista americana, poetessa del rock, sforna un disco che entrerà nella storia e influenzerà molto la scena post punk della fine degli anni Settanta. Un disco importante anche per una copertina importante. La foto, famosissima, della cantante vestita da maschio, è di Robert Mapplethorpe. Fu scattata al Greenwich Village. Il bianco e nero e l’abbigliamento unisex sovvertono lo stile delle immagini di lancio delle cantanti donne. Patti Smith definirà la sua posa “un mix tra Baudelaire e Sinatra”. Sono i Settanta, bellezza.

 

Sex Pistols, “Nevermind the Bollocks” (1977)

“Io sono un anticristo, sono un anarchico, non so cosa voglio ma so come ottenerlo, voglio distruggere”. Così cantava Johnny Rotten in “Anarchy in the Uk”, il pezzo forte di questo disco dei Sex Pistols, la band inglese che in quell’anno domina la scena del punk. Distruzione, rabbia, anticonformismo sono gli ingredienti di questo Lp graffiante, che sentenziava tra l’altro che non vi fosse futuro per il sogno inglese, nella irriverente God save the Queen (“and the fascist regime”, aggiungeva da principio Rotten). Per un disco del genere la copertina non poteva che essere nichilista. La realizzò Jamie Reid, artista inglese anarchico. Nessuno spazio a foto o immagini, solo un lettering su sfondo giallo, con quella parola volgare, “bollocks” (“palle”) in primissimo piano. La frase gergale della working class inglese, spiegò lo stesso Rotten, significava più o meno “smettila di dire stronzate”. Una copertina che divenne subito un cult.

 

The Clash, “London Calling” (1979)

I Beatles nel 1964 erano stati i pionieri della prima storica “British invasion” degli Stati Uniti. Dopo il loro trionfale arrivo all’aeroporto di New York e soprattutto dopo la loro seguitissima performance in tv all’Ed Sullivan Show, il quartetto si era preso l’America, spianando la strada alle altre band britanniche, come i Rolling Stones, che da lì agli anni a venire avrebbero imperversato nelle classifiche americane. La seconda invasione britannica arriverà nei primi anni Ottanta, quando le band inglesi conquisteranno l’America grazie ai videoclip trasmessi da Mtv. Ma le primizie della “Second British invasion” si avranno già agli albori del decennio, con gli album post punk che si affacceranno da protagonisti anche sulla scena statunitense. E tra quei dischi, un posto d’onore spetta a “London calling” il doppio dei Clash, terzo album della band, che uscirà in Inghilterra a dicembre del 1979 e arriverà in America il mese dopo, all’inizio del 1980. Rolling Stone lo ha inserito tra i dieci più grandi album di sempre. E il suo successo è strettamente legato alla sua iconica e celeberrima copertina. Che ritrae in fotografia Paul Simonon che spacca il basso sul palco, inserito in una grafica che nell’uso dei colori e nella disposizione delle parole (orizzontale e verticale) riprende il primo album di Elvis Presley.

 

L’omaggio a Elvis voleva indicare il riavvicinamento della band alle radici del rock dopo l’ubriacatura del punk. Ma il rock and roll dei tempi di Elvis non è più, la musica e il mondo giovanile hanno perso quell’alone naif, così diventa emblematico il gesto iconoclasta del musicista che distrugge il suo strumento, immortalato da Pennie Smith, fotografa al seguito dei Clash, durante il concerto al Palladium di New York, nel settembre 1979. Nel 2002 lo scatto di Smith (che l’autrice non amava perché un po’ sfocato) fu decretato la migliore fotografia rock di tutti i tempi dal magazine Q, con la motivazione che “cattura il momento rock and roll definitivo: la totale perdita di controllo”.

 

Nirvana, “Nevermind” (1991)

Quando la Geffen pubblicò nel 1991 il secondo album dei Nirvana, band grunge dello stato di Washington capitanata da Kurt Cobain, l’obiettivo ottimistico della casa discografica era di totalizzare 250 mila copie, per eguagliare i risultati dell’ultimo disco dei Sonic Youth. L’album invece vendette più di dieci milioni di copie solo negli Stati Uniti e dieci anni fa si stimava che ne avesse venduto 24 milioni nel mondo, trainato dal travolgente successo del suo singolo “Smells like teen spirit”. “Nevermind” fu probabilmente il più importante disco degli anni Novanta, quello che portò il grunge, il suono sporco nato nei garage di Seattle e dintorni, sulla vetta del mondo. Con i suoi testi che davano voce allo smarrimento giovanile, Kurt Cobain divenne l’icona dei primi Novanta. Sarebbe tragicamente scomparso tre anni dopo. La copertina dell’album – nata da un’idea del cantante – divenne presto un’immagine cult. La foto ritrae un neonato in una piscina californiana che insegue un biglietto da un dollaro attaccato a un amo da pesca (dettaglio che venne aggiunto in post-produzione). Il “modello” si chiamava Spencer Elden, aveva 4 mesi all’epoca della foto, i suoi genitori ottennero un compenso di 150 dollari. La band gli regalò il disco di platino ricevuto per lo straordinario successo dell’album. Qualcuno discettò sull’opportunità di mostrare o meno i genitali del bambino e si racconta che Cobain commentò al riguardo che “chi poteva sentirsi offeso dall’immagine del pene di un neonato, probabilmente doveva essere un pedofilo represso”.

Di più su questi argomenti: