E' uscito Fidatevi!, il disco nuovo dei Ministri (foto LaPresse)

Feriti, arroganti e ottimisti. I Ministri sono la quintessenza di Milano

Simonetta Sciandivasci

Il concerto a Roma, all’Atlantico, un salto generazionale

Roma. Bisogna imparare ad amarsi, dice Ornella Vanoni. E va bene, però, accipicchia, vatti a fidare, con tutto quello che c’è in giro, tra odiatori, populisti, traditori, scippatori di parcheggio. Non importa: fidatevi. Fidatevi! è il disco nuovo dei Ministri, che sono tre e hanno qualche decina d’anni in meno di Ornella Vanoni – diciamo pure che sono millennial – ma come lei sono milanesi e questo è un punto fondamentale che chiarisce la carica politica (morale, se preferite) degli inviti di entrambi. Non esistono evidenze scientifiche che dimostrino l’esistenza delle generazioni: l’altro giorno, su Slate, un professore della George Washington University implorava tutti di tenerne conto, visto quanto straparliamo di millennial. Esistono, però, le città, che influiscono sulle persone più di quanto faccia il tempo. Sulla copertina del disco dei Ministri c’è uno squalo, anche piuttosto incazzato. Nella canzone che fa “quindi fidatevi!” ci sono gli scippatori di parcheggio e ci siamo noialtri che auguriamo loro di morire perché “siamo i non violenti con la bava ai denti, le pantere nere delle buone maniere” e, qualche pezzo dopo, “siamo feriti e arroganti” e “ci trasciniamo convinti dentro a pochi ricordi che sono sempre gli stessi da quando abbiamo vent’anni” e insomma c’è ben poco per essere ottimisti e fiduciosi. Voi direte: ma allora è un disco sardonico! E invece no. Niente Stato Sociale, niente vecchia che balla e vita in vacanza per un mondo diverso, niente glam, niente canzoncine da cameretta disilluse però ballabili.

  

I Ministri vengono da una città che era (e sempre sarà) zucchero e catrame, che non si è ripiegata mai né sul benessere e né sul malessere, operosa sempre, capitale morale perché capitana, la prima a lavorare indipendentemente dalle condizioni, dai risultati, dalla squadra, la prima – e forse l’unica – a lavorare per sé e per gli altri. Hanno questo, di milanese, i Ministri, nel loro disco: il calvinismo e la fiducia operosa che Milano, vista da Roma, o vista da qualsiasi altra parte, forse pure da dentro, sembrava aver perduto o sbiadito o tralasciato, stordita dal suo exploit. Sabato scorso, i Ministri hanno suonato all’Atlantico, a Roma, che è il locale dove è passata tutta la scena indie pop romana (e poi nazionale), quella che alla musica indipendente ha dato un appeal commerciale, un po’ di mollezza, molti musicisti bravi che però non sanno tenere un palco. La scena de I Cani, quelli di Roma Nord come i The Giornalisti, che nell’ultimo disco cantavano “non voglio guardare dentro di me, non c’è niente di niente”. Invece, i Ministri non solo ci hanno guardato, dentro di loro, ma hanno pure guardato dentro gli altri e tirato fuori le cose storte e turpi, dicendo che sono quelle che strutturano e pungolano un desiderio semplice come quello di migliorarci la vita.

 

E’, ormai, un palco generazionale, quello dell’Atlantico (all’uscita ci sono i consulenti delle aziende di vestiti che studiano le magliette delle ragazzine). I Ministri sono trentenni o poco più, però una delle prima cose che ha detto il cantante, a Roma, è stata “siamo un po’ dei Matusa” (però alla fine ha fatto stage diving, una cosa che a Fedez o Tommaso Paradiso non vedremo fare mai, perché si tratta di buttarsi sul pubblico ed essere certi che non ti lascerà cascare per terra). Hanno iniziato a suonare quando a Milano c’era Letizia Moratti (Dragogna, il chitarrista, ha detto una volta a questo giornale che nella Milano di Pisapia si stava talmente meglio che probabilmente non avrebbero avuto bisogno di creare un gruppo indie rock, furibondo come lo erano loro – che cantavano, all’epoca, “ci meritiamo le stragi, altro che Alberto Sordi”).

  

Squalo non sbrana fiducia così come catrame non inghiotte zucchero. Non ci vuole l’ottimismo, per levarci da quest’odio verso tutto che abbiamo: ci vogliono i milanesi morali, che vengono a dirci, un sabato sera di metà primavera, che l’ultimo rischio che ci resta da correre, il solo ad avere un senso politico, è fidarci degli altri, proprio ora che sono bui, molto più dei tempi.

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